Meno di sessanta ore di permanenza in quella che si chiamava ancora – era il 1975 – Stanleyville, e l’aggiunta di qualche sogno furono sufficienti a V. S. Naipaul per ricostruire l’atmosfera sospesa della città situata Sull’ansa del fiume, il suo romanzo più celebre, datato 1979, ora ritradotto da Valeria Gattei per Adelphi (pp. 327, euro 26,00), già uscito nel 1982 da Rizzoli, e nel 1995 da Mondadori con il titolo Alla curva del fiume. Siamo sulle rive del Congo, il rimando a Cuore di tenebra è scontato, eppure Naipaul disse di non avere pensato un solo istante al romanzo di Conrad, che non amava perché vi leggeva una scissione dello sguardo: «da una parte l’osservatore, dall’altra il narratore che trasforma in finzione quel che scorre sotto i suoi occhi».

Agli occhi del Naipaul viaggiatore, invece, paesaggi e persone sembrano già trovare quella specifica messa a fuoco che gli servirà per allestire la sua coreografia romanzesca, e proprio l’assenza di verginità rende il suo sguardo così prensile, proprio il carico di pregiudizi e di risentimento ereditati dalla frizione con quella «civiltà ferita» che era l’India dei suoi antenati rendono reattivi e vibranti i dettagli dei paesaggi naturali e di quelli urbani che eleggerà a fondali dei suoi libri.

Dunque, la città alla curva del fiume, nel cuore dell’Africa centrale, ai margini del bush: lì nel XIX secolo gli arabi si erano spinti in uno «sforzo estremo», ma poi quella spinta si era esaurita ed erano subentrati gli europei, che convivevano con i nativi, uomini malins, infidi, cattivi, abituati a considerare i loro simili «come prede». È un commerciante già da tempo residente nella città sul fiume a descrivere con queste parole il panorama umano con il quale si troverà a fare i conti Salim, protagonista del romanzo e voce narrante, che si è spostato dalla costa orientale, un luogo «arabo-indiano-persiano-portoghese», dopo avere lasciato la sua famiglia le cui origini sono nell’Oceano Indiano, e essere – almeno temporaneamente – scampato al matrimonio che l’amico di famiglia, Nazruddin, gli aveva combinato con la figlia.

Tutto ciò che Salim sa della città alla quale è approdato gli viene dalle storie di Nazruddin, il resto lo apprenderà dall’esperienza, per esempio il fatto che nella città sembra esistere solo il presente, come se «per qualche sconvolgimento celeste, la prima luce del mattino si ritirasse sempre nelle tenebre, e gli uomini vivessero in un’alba perpetua». Con l’indipendenza, viene a sapere Salim, gli abitanti della intera regione sembravano impazziti di rabbia e di paura, la rabbia accumulata durante il periodo coloniale e la paura derivata da memorie tribali risalite alla coscienza; ma anche gli stessi africani avevano infierito su di loro maltrattandoli, vessandoli e, in definitiva, preparandoli alla ennesima rivolta quando il nuovo governo della capitale era subentrato a quello coloniale. Perciò avevano distrutto quella città di cui avrebbero potuto prendere il controllo, e al tempo in cui Salim arriva vi si aggirano smarriti, affamati, pronti a far scoppiare una nuova vampata distruttiva.

Dalla costa orientale, la famiglia manda in dote a Salim un ragazzo con mansioni di servitore il cui nome, Metty, allude alla sua natura meticcia; apparentemente devoto e forse realmente affezionato, il ragazzo è tuttavia un vagabondo. Sarà lui, una volta salito al potere il Grande Uomo sotto la cui veste romanzesca si nasconde Mobutu, dittatore del Congo, a denunciare Salim per commercio illecito dell’avorio. Né i luoghi né i personaggi storici ai quali il romanzo allude vengono mai nominati, ma lo stesso Naipaul è stato più volte generoso di informazioni, e nel breve testo che ha scritto a introduzione del libro porta a spiegazione della sua genesi tanto memorie di un viaggio reale quanto l’ineffabile materia del «mistero». Dietro ogni suo libro, dice, si nasconde «un colpo di fortuna: una materia elaborata solo in parte, non del tutto compresa, che lentamente è venuta alla luce e ha preso forma». E, in effetti, l’indeterminatezza di luoghi e personaggi, l’inafferabilità dei loro confini geografici e mentali, l’impossibilità di attingere a un passato decodificabile e di proiettarsi in un futuro prevedibile rendono impalpabili le sue atmosfere, benché la scrittura di Naipaul faccia presa sulle descrizioni – così gli disse un amico in tempi lontani – «come la frusta che si avvolge intorno a un bastone». Anche l’animo di Salim è abitato dalla vaghezza: approdato alla città sulla curva del fiume senza particolari intenzioni, si considera di passaggio, alla ricerca di un posto ideale in cui stare: «aspettavo l’illuminazione che mi avrebbe indicato il luogo e la “vita” di cui ero ancora in attesa».

Dal mondo inghiottito nel bush viene a trovarlo ogni tanto la mercante Zabeth, che sulla sua piroga risale il fiume per millecinquecento chilometri portando i prodotti del villaggio e riandandosene con le povere cose acquistate al negozio di Salim: «Era come se ogni volta uscisse dal suo nascondiglio per strappare al presente (o al futuro) un carico prezioso da riportare alla sua gente». Si dice di lei che sia una maga, una donna di potere: la avvolge l’odore acre degli unguenti che si cosparge per respingere i potenziali aggressori. Un giorno si presenta con suo figlio Ferdinand, vuole che Salim lo tenga d’occhio mentre il ragazzo frequenta il liceo della città, e Salim riluttante accetta, ne segue i movimenti, riflette su di lui leggendogli sul volto «il ricordo di maschere spaventose», quelle stesse maschere collezionate da padre Huismans, un uomo innamorato dell’Africa che verrà molto presto ucciso, e nella cui casa sembrano sepolti gli spiriti del bush.

Dopo che il Grande Uomo prende il potere, compare in città il suo braccio destro, un bianco che lo precede per prendere su di sé ogni possibile sventura, e insieme a lui c’è Yvette, la moglie della quale Salim si innamorerà, ritrovandosi per la prima volta sedotto da una passione gratuita, «abbracci dati e ricevuti senza calcolo». Tutte le immani privazioni del passato si precisano via via che l’esperienza dell’appagamento presente lascia il posto allo stupore iniziale, la consapevolezza di «una fame insaziabile» si fa strada nell’animo di Salim insieme alla grande rabbia che presto rivolgerà verso Yvette, breve apparizione del romanzo lasciata subito indietro come fosse il passaggio di una meteora, potente, luminosa e motrice di scene crudeli. Salim andrà a Londra, vi passerà sei settimane osservando le persone come lui provenenti da luoghi remoti e sfortunati arrancare per trovare lavoro e di che vivere nei quartieri degli immigrati, con le bancarelle, i chioschi, le drogherie dove si riproducono le stesse miserevoli transazioni commerciali che avevano occupato quelle persone venute dal cuore dell’Africa, prima che naufragasse in loro ogni speranza di riscatto o di un migliore futuro.

Dopo che Salim sarà tornato alla città sull’ansa del fiume, dopo che avrà subito la nazionalizzazione del suo negozio, passato nelle mani di fiduciari dello stato, incontrerà di nuovo Ferdinand, il figlio della maga che un giorno gli era stato affidato. Ora è un funzionario al servizio del dittatore, e in quanto tale in grado di tirare Salim fuori dai guai; ma il suo bilancio è disastroso: «Tutto quello che mi hanno dato me l’hanno dato per distruggermi».
Man mano che si avvicina al centro del potere, l’osservazione di Naipaul si fa più precisa e la sua diagnosi più realisticamente infausta: africani e stranieri in cerca di metodi per arricchirsi velocemente lavorano insieme al glorioso progetto del Dominio ideato dal Grande Uomo, il modernizzatore e l’africano che ha riscoperto le sue origini, il rivoluzionario e il conservatore, il soldato e l’uomo del popolo che va in pellegrinaggio al luogo in cui nacque sua madre, la cameriera d’albergo alla quale ha fatto erigere grandi santuari nel bush.

L’occhio cupamente realista di Naipaul seleziona persone e fatti che si stagliano come incarnazioni della sfortuna e del risentimento, mentre il suo carattere oppositivo si trasferisce alla sintassi che esalta l’uso del ma, subito dopo il punto fermo, come a imporre al lettore una sorta di altolà, l’arresto di ogni possibile illusione. Di luoghi e abitanti Naipaul ingrandisce i dettagli più sinistri, amplifica le voci che portano notizie della disillusione patita: il suo sguardo è carico di pregiudizi, quelle «certezze negative» che Edward Said gli riproverava di mostrare come fossero le uniche di cui vale la pena parlare, e delle cui conferme è patentemente alla ricerca; ma non per questo il quadro romanzesco è meno attendibile, solo sembra non ci sia posto per altro se non quanto deriva dalla frustrazione, e ogni tanto una dichiarazione perentoria assesta la sua zampata a mo’ di sigillo di ogni speranza: «Il mondo è quello che è; non c’è posto per le nullità, per chi permette a se stesso di diventare una nullità».