Alias

Nagar Kirtan, a Sabaudia con i Sikh

Nagar Kirtan, a Sabaudia con i SikhIn pagina foto di Ludovico Paiella e Sara Terracciano

Reportage Una immersione nella cultura, nella musica, nella religione e nella lingua di un popolo

Pubblicato circa un anno faEdizione del 22 luglio 2023

È una giornata di metà aprile siamo in macchina a Sabaudia, con Guntaj, Babaji, e quello che ho sempre creduto essere un suo collega più anziano. Guntaj ha 17 anni è insolitamente entusiasta. Lo conosco da più di due mesi e ha spesso la faccia scura. Prima di essere qui con me è partito dal Punjab è passato per mezzo mondo e ha attraversato a piedi i confini di Bosnia Serbia e Slovenia. Si è perso il passaporto nel viaggio, o qualcuno gliel’ha rubato (non abbiamo ben capito). I Baba invece sono coloro che officiano il rito Sikh. Sono figure particolarmente austere, vivono nel Gurdwara (tempio) e li abbiamo visti uscire al di fuori di questo molto raramente. Ci sembrano particolarmente entusiasti, incuriositi e divertiti da questi due tizi che sono palesemente fuori luogo nel tempio e fanno un po’ troppe domande. «Tomorrow Festa, Nagar Kirtan, you go? mi aveva detto Guntaj. In macchina inizialmente c’è un silenzio abbastanza austero, vuoi per i limiti di linguaggio, solo Guntaj parla inglese, vuoi per una forma di rispetto verso quegli uomini che mi sembrano istituzioni.

Io e Sara ci guardiamo imbarazzati e divertiti dalla situazione. Dopo aver smanettato per un pochino con il Bluetooth Guntaj fa partire dallo stereo un brano di Sidhu Moose Wala.

Negli ultimi mesi siamo stati sottoposti a un ascolto più o meno forzato del rapper. È in Punjabi ovviamente, e non ne capiamo una parola. Fa gangsta Rap e tutta la sua estetica è: mazzette di soldi, auto sportive, pistole e fucili placcati in oro, come tutto il gangsta rap, ma con l’aggiunta di trattori (ovviamente pimpati), turbanti e una certa narrazione delle tradizioni e del Punjab come qualcosa di idilliaco. I due anziani alle nostre spalle sorridono e cominciano a muovere la testa a ritmo, proprio come i rapper. Siamo stupiti, li abbiamo sempre visti nel tempio, seri e composti. Più in là capiremo

Sidhu Moose Wala è, oltre a tutto il resto, il simbolo delle proteste del Punjab.

Il brano appunto Pujab recita più o meno «questo è il Punjab che si riprende la sua rivincita, il Punjab che sottomette Delhi». E forse proprio tutto ciò descrive chi sono i Sikh, un popolo giovane, orgoglioso, incazzato.

«In Punjab ci son due strade» mi hanno detto «o comandi un’azienda agricola e lo stato ti leva tutto, o lavori nei campi e allora non hai proprio nulla». L’Italia dai loro racconti è una meta di passaggio per luoghi più accattivanti dove il guadagno è migliore (Usa, Canada) o dove è più facile avere dei documenti (ora per esempio il Portogallo) per altri, a volte, un approdo definitivo.

Il fenomeno è alimentato da una narrazione sui social, da storie e stories, di emancipazione e agio, quando invece spesso la situazione che si trovano a vivere è come ormai acclarato sfruttamento, ghettizzazione e agromafie.

Una volta assistemmo ad un incontro, con alcuni tra sindacalisti e braccianti, uno dei leader sindacali di cui eviterò di dire la sigla esordì così «perché voi è come se viveste in India qui.. .state in Italia ma la vostra vita non cambia.» Provammo disgusto sul momento. Tutti lo sanno che gli indiani sono lì, lo sanno i vigili, lo sanno i carabinieri, i comuni, tutti quanti.

Camminando per le strade della pianura Pontina, per le città, è impossibile non accorgersi della comunità indiana ma non perché palese, non ci sono tracce evidenti nel tessuto urbano se non per qualche Punjab store o tavola calda sparuta. È difficile incontrarli nei bar o nei locali.

Raramente li si può incontrare sulle spiagge del litorale. Non vanno al mare, dista da Amirat, la capitale del Punjab 2000km. Sono ovunque, ma di passaggio. Per rendersi conto dell’entità del fenomeno bisogna spingersi nelle strade di campagna. Dove li si incontra su biciclette scassate dei più, elettriche dei fortunati. Oppure bisogna frugare con gli occhi, con molta attenzione sotto il mare di serre che riempie la pianura. Dove sono dei puntini distanti. Se per le strade, nei bar, si domanda di loro si ottengono risposte razziste o se va bene l’epiteto «grandi lavoratori», dai «puri» (chi non è connivente o consapevole dello sfruttamento), insulti o fughe da chi invece sa, ed è colpevole.

Nessuno li conosce o tanto meno ci prova. Parliamo di «fortezze» indipendenti, autogovernate, autoregolate, invisibili a chi non vuole vedere e sentire. Anche se il contatto è inevitabile, i bambini a scuola si mescolano, e se al bar non li vedi, ma se arrivano le giostre in paese i ragazzi sul Tagatà ci passano la serata. E comunque, per quanto siano ghettizzati, i campetti da calcio quelli sono.

Abbiamo cominciato questo lavoro fotografico senza le idee chiare. Ci eravamo chiesti prima per parecchio tempo chi fossero quelle ombre che vedevamo girare in bici nelle campagne. Avevamo letto un libro, Sotto Padrone di Marco Omizzolo. quindi abbiamo deciso di sederci in un angolo del tempio (fisicamente e metaforicamente) e aspettare che gli altri si mettessero in posa e che le cose accadessero di fronte alla nostre fotocamere.

E anche solo stando seduti con loro durante la celebrazione stiamo imparando moltissimo, e ancora cerchiamo di definirlo, sulla pratica della spiritualità.

Ad oggi le nostre foto provano a raccontare quel microcosmo autocostituito dove valori secolari, costumi e colori si legano ai valori più labili e consumistici dell’occidente.

In un territorio, dall’altra parte legato ad una storicità italiana, dove per citare il comico Luca Ravenna «Il fascismo scorre nelle vene», se non come ideologia almeno come simbologia.

Ma quando arriviamo a Lavinio ci ritroviamo di fronte la piazza della stazione gremita di persone.

Al centro della piazza vi è un enorme gazebo colorato, dove già centinaia di persone sono sedute. Uomini donne e bambini. Pregano mangiano e stanno insieme.

Poco dopo arriverà il corteo con il Guru Granth Sahib, il testo sacro del Sikhismo.

A questo vengono riservati cure e protezione, nessuno vi si può avvicinare se non è scalzo, con gambe e braccia coperte e se non ha lavato mani e piedi.

Il libro disposto in un camion trasformato in altare, è circondato da i Niangh (gli immortali, i più puri fra i Sikh) davanti a loro la strada viene spazzata, lavata e cosparsa di petali.

A seguire vi sono i fedeli che intonano canti.

I più sono a piedi nudi, anche quando l’asfalto ustiona i piedi.

Formalmente è questo il Nagar Kirtan, una preghiera collettiva, in primavera ogni comunità Sikh sfila a turno nelle piazze e nelle strade delle varie città.

Ma è anche di più, soprattutto in un territorio così duro e opprimente come l’Agro Pontino. È la dimostrazione di resistenza di un popolo di combattenti, oppresso e sfruttato nei campi di lavoro, e inesistenti per lo stato italiano.

Nella festa non è consentito l’uso del denaro.

Cibo e bevande vengono distribuite gratuitamente a chiunque si metta in fila e chieda cibo.

Cucinare e servire da mangiare, pulire e prendersi cura degli altri non solo è un dovere per i Sikh ma quasi un onore. Si chiama «Seva» è letteralmente il servizio alla comunità, al prossimo.

Un’ ospitalità ancestrale.

Se vi trovaste a passare per un Gurdwara (il tempio), in qualsiasi momento, la prima cosa che vi trovereste a fare è mangiare, se non vi è il Langar ( la cucina collettiva) non vi è il tempio.

Eravamo seduti a terra parlando con alcuni ragazzi tra cui Guntaj, sentiamo batterci sulle spalle, è un uomo che conoscevamo già, scambia due parole con gli altri ragazzi . Dopo una serie di battute in pujabi, ci dicono: indicando una coppia di turisti spaesati «Potete andare da loro e dirgli che possono mangiare e bere ciò che vogliono?»

Ci sembra tutto così dignitoso e al contempo ironico.

È un contrasto forte.

I giovani che si inchinano per salutare gli anziani e i suv e trattori agghindati a festa.

Collane d’ oro ovunque e preghiere secolari in filodiffusione.

Anziani meravigliosi che sembrano usciti da icone sacre costretti a una vita durissima.

Mostrando le foto in giro all’interno della comunità un ragazzo ha indicato una foto del secondo Baba, quello che era in macchina con noi quel giorno. «Grande lui, lavoriamo insieme, ha il doppio della mia età ma lavora al doppio della mia velocità».

Ma soprattutto c’è una certa ironia nel vedere le piazze di Sabaudia, Latina, Pontinia e così via, piazze che celebrano e cantano imprese coloniali patria e razza italiana, piazze molto spesso vuote durante l’anno, piene di tutte quella vita fino a quel momento nascosta e violentata.

Nagar Kirtan

di Marco Omizzolo

Prendere parte al Nagar Kirtan in provincia di Latina è un’esperienza affascinante. Sembra di vivere un’Italia diversa; non più conservatrice ma plurale, aperta, inclusiva, accogliente. Migliaia di indiani, vestendo eleganti abiti religiosi dai colori sgargianti, inondano le strade delle città pontine in cui da circa trent’anni vivono, mostrando con fierezza la loro cultura. Con passo lento e intonando canti religiosi, ricordano, con buona pace dei tanti leghisti e fascisti che ancora risiedono nell’Agro Pontino, che l’Italia è già plurale, interculturale, espressione di accenti, linguaggi, costumi e culture antiche, democratiche e dialoganti.

Il Nagar Kirtan è una manifestazione religiosa ma non solo. È un atto di cittadinanza, un modo per dire a istituzioni e cittadini che esiste una comunità di indiani sikh. Non fantasmi, come troppo spesso ci si ostina a definire le donne e gli uomini sfruttati. Ma persone in carne e ossa, con una storia millenaria, una cultura ricca ed effervescente, una lingua indo-ariana affasciante quanto complessa che ha molte più assonanze con l’italiano di quanto un leghista qualunque possa immaginare. Sotto questo profilo, il Nagar Kirtan afferma una coesistenza già in corso, la rende evidente, nei fatti.

Nel corso degli ultimi trent’anni ci sono state decine di Nagar Kirtan in provincia di Latina. Alcune hanno superato le diecimila persone. Già intorno agli anni 2005 si organizzavano nei Comuni di Sabaudia e poi Terracina, Fondi, Pontinia, Latina. E ogni volta migliaia di donne, uomini e bambini sikh, provenienti anche dall’estero, si radunavano in un Gurudwara (tempio sikh) per poi attraversare un quartiere o un’intera città con l’obiettivo di portare un messaggio di pace, accoglienza, uguaglianza.

Sono donne e uomini in gran parte impiegati in agricoltura. Lavorano come braccianti. Raccolgono ortaggi e frutta per i padroni italiani. Vengono pagati in media 4 o 5 euro all’ora. Lavorano anche 14 ore al giorno. Pochi mesi fa, come denunciato dal Manifesto, in alcune aziende tra i Comuni di Sabaudia e San Felice Circeo sono stati impiegati minori di 13 anni.

Il dossier Ecomafia 2023 di Legambiente ha riservato a questo fenomeno criminale un intero paragrafo. La politica, di destra e sinistra, non ha sinora proferito parola. Mai un’interrogazione, una iniziativa. Il silenzio. Agghiacciante. Altrettanto gravi sono le conseguenze che i braccianti stanno subendo per via del caldo torrido. Molti di loro, infatti, lavorano nella raccolta dei cocomeri anche nelle ore più calde. E spesso svengono nell’indifferenza del padrone e del caporale.

La Regione Lazio, come in passato in realtà, si guarda bene dal promulgare una delibera per sospendere l’attività di raccolta durante le ore più pericolose. Mai disturbare i padroni. Da loro derivano voti, a migliaia. E pensare che assessore al lavoro in Regione è Schiboni, più volte sindaco del Comune di San Felice Circeo. Dovrebbe essere ben consapevole di quanto accade nelle campagne pontine.

Invece il silenzio. Tutto questo mentre le Nazioni Unite riconoscono lo sfruttamento in Italia di migliaia di braccianti immigrati, nonostante lo sciopero organizzato il 18 aprile 2016 proprio a Latina che permise, grazie alla cooperativa In Migrazione e alla Cgil, a circa 5mila indiani di chiedere giustizia e libertà.

Uno sciopero che assestò un duro colpo alle agromafie che, a livello nazionale, secondo l’Eurispes, fatturano ogni anno circa 24,5 miliardi di euro. Denaro che spetterebbe ai lavoratori, allo Stato, al popolo italiano e che invece resta nelle tasche di padroni, padrini, trafficanti, truffatori e corrotti vari. Molti di questi sono italiani. Altri sono invece indiani. Sono spesso finti capi, autoproclamatisi rappresentanti della comunità indiana del Lazio o addirittura d’Italia.

È una delle evoluzioni più drammatiche del sistema padronale e agromafioso che rende asservita a padroni italiani e a padrini indiani una parte della comunità sikh dell’Agro Pontino. Alcuni finti capi risiedono soprattutto tra i Comuni di Sabaudia e Terracina, non a caso tra le realtà in cui sfruttamento, caporalato, tratta internazionale e crimini analoghi, sono più organizzati e diffusi.

Sono gli stessi che organizzano i Nagar Kirtan, facendo svolgere, contro ogni precetto religioso, a questa manifestazione un ruolo politico finalizzato all’autoaffermazione del loro potere. Essi guidano auto da centinaia di migliaia di euro, mentre i loro connazionali da venti o più anni vanno a lavorare sotto le serre del padrone pedalando su biciclette scassate. Acquistano case di lusso, indossano abiti costosi e si permettono qualunque genere di sfizio, spesso pagando in contatti, mentre molti loro connazionali vivono nei container. Sanno anche organizzare spedizioni punitive, bastoni e pistole in pugno, contro rivali o esponenti della comunità indiana che ne mettono in discussione il potere.

Non sono mancate le tragedie. È accaduto a borgo Montello il 30 ottobre 2021, quando in seguito a una spedizione punitiva ha perduto la vita il ventinovenne Sumal Jagsheer. Un gruppo di indiani armati di mazze di ferro si è accanito contro i partecipanti alla festa organizzata dalla vittima per la nascita di suo figlio. La colpa di alcuni dei presenti era quella di aver scelto come referente un altro capo della comunità, presente la sera precedente e fuggito poco prima del loro arrivo.

Comportamenti che sono in netta contradizione con il Nagar Kirtan, che in provincia di Latina termina sempre con un palco in cui si premiano con una targa coloro che si sono impegnati in favore della comunità sikh.

Guarda caso a organizzare questa cerimonia ci sono sempre loro, i capi, i boss, da decenni. È in questo caso che essi stringono alleanze per nuovi affari. Vale soprattutto tra due dei maggiori leader della comunità indiana della provincia di Latina. In lotta per anni, solo recentemente e proprio nel corso di un Nagar Kirtan hanno stretto un’alleanza che fa di questa nuova organizzazione un potere criminale particolarmente potente, al punto da gestire molti servizi fondamentali per i lavoratori indiani.

Tra questi, alcuni servizi funebri, come il rimpatrio delle salme degli indiani deceduti in seguito a incidenti mortali avvenuti sul posto di lavoro, traendo profitti illeciti dai rimborsi milionari che spetterebbero alla famiglia del defunto grazie al risarcimento Inail. Lo stesso vale per gli acquisti di immobili alle aste pubbliche, per il sistema di taxi interno alla comunità, di spaccio di sostanze dopanti necessarie ai braccianti per reggere fatiche estreme, per l’attività di caporalato e tratta, e i servizi per il rinnovo delle pratiche amministrative, come i permessi di soggiorno, le domande di disoccupazione agricola, il rinnovo delle alloggiative, dei documenti di identità e le patenti d’auto. Affari milionari fatti ancora una volta sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici, che stanno conducendo verso una nuova mafia indiana.

Il Nagar Kirtan merita di essere visto, vissuto, applaudito con trasporto. Ma saper distinguere ciò che esso rappresenta dagli affari di alcuni finti capi indiani è fondamentale per non essere osservatori inconsapevoli di un sistema criminale giocato ancora sulla pelle degli sfruttati ed emarginati.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento