Di  Nadežda Tolokonnikova, che incontriamo in una tappa del tour promozionale per il suo ultimo libro (Read& Riot – A Pussy Riot Guide to Activism, HarperCollins), oltre allo sguardo tenebroso da ritratto di Tamara de Lempicka, colpisce il fisico esile. Il corpo minuto che da oltre un decennio non ha esitato ad anteporre antagonisticamente al feroce regime putiniano. Un impegno di cui la ventinovenne co-fondatrice del collettivo femminista art-punk Pussy Riot, oggi madre di una figlia di dieci anni, ha fatto personalmente le spese. Le ragazze del collettivo sono state selvaggiamente picchiate da miliziani cosacchi a Sochi, pedinate, arrestate e per ultimo trascinate a forza fuori dallo stadio di Mosca, e imprigionate, quando hanno invaso il campo durante la finale dei mondiali la scorsa estate. La «preghiera punk» nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca le è valsa nel 2012 (con due compagne, Marija Alëchina e Ekaterina Samucevic) una condanna a due anni di lavori forzati.

Interpreti di un situazionismo ispirato al punk, all’azionismo, alla performance art e alle avanguardie artistiche dal 900 al ’68, le Pussy Riot incarnano una rivolta giovanile e quella internazionale femminista che oggi nel mondo vede le donne in prima linea nella resistenza all’involuzione neo totalitarista del nazional populismo. L’ultimo libro di Tolokonnikova è una sorta di vademecum della ribellione, un sussidiario di appunti rivoluzionari in ordine sparso con citazioni che vanno da Bette Friedan a Michel Foucault, Vaclav Havel e Noam Chomsky, Guy Debord, J.L. Godard e Angela Davis ,Tristan Tzara, Kurt Cobain, Judith Butler, Ursula Le Guin e Diogene … Frammenti più che un manifesto, una collezione di spunti per un ideale movimento transnazionale contro il nuovo totalitarismo, scritto in inglese per rivolgersi anche alla nuova resistenza giovanile nell’America trumpista dove le Pussy Riot hanno preso a suonare regolarmente.

Cosa pensi delle recenti elezioni negli Stati Uniti?
Anche se credo che il partito democratico sia scivolato troppo verso il neoliberismo e si sia allontanato dalla missione originaria di difendere i lavoratori, penso sia comunque importante che riprendano il potere. Sono in stretto contatto con Emma Gonzalez e ho incontrato David Hogg (sopravvissuti alla strage di Parkland e fondatori del movimento studentesco NeverAgain, ndr) e trovo che stiano facendo un grande lavoro, sono eloquenti e motivati e rappresentano semplicemente il futuro. Una grande ispirazione per tutti i militanti.

Il vostro impegno politico continua?
L’attivismo sta diventando più complicato. In Russia c’è un numero sempre maggiore di prigionieri politici, gente arrestata per cose minime – un like o una condivisione su Facebook. Siamo ancora in grado di intraprendere azioni di resistenza per la strada, ma sta diventando sempre più difficile perché veniamo costantemente seguite, i nostri telefoni intercettati. A volte ci pedinano apertamente assicurandosi che li vediamo mentre ci filmano. Poi c’è stato l’episodio di Pyotr Verzilov – il mio ex marito – che era fra quelli che hanno fatto l’invasione di campo durante la finale dei mondiali alla presenza di Putin, Macron e di altri dignitari. È stato avvelenato per rappresaglia ed è rimasto completamente debilitato per due settimane, per tre giorni ha perso conoscenza: non sapevamo se sarebbe sopravvissuto, e ha delirato per altre due settimane. Adesso si sta riprendendo, ha intenzione di tornare in Russia ma per ora si trova in Israele.

Parlaci del tuo arresto.
Quando mi hanno presa non ho avuto nemmeno il tempo di salutare mia figlia, appena quello di raccogliere un paio di cose prima di essere portata via, senza sapere dove. Lei stava all’asilo, sono solo riuscita a dire a sua nonna di farle sapere che sarei partita per un viaggio. All’epoca cambiavo casa ogni giorno perché la polizia era sulle nostre tracce.

Com’era la vita quotidiana in prigione?
Nel campo di lavoro la sveglia era alle 5:45 e la prima cosa da fare erano gli esercizi mattutini: una specie di crudele presa in giro per le detenute che dopo appena quattro ore di sonno tutto avrebbero voluto tranne che fare ginnastica. Dopo c’era la pulizia, bisognava riordinare le celle come nell’esercito, lavare a lucidare ogni cosa. Lavoro inutile ma che ti impongono per non lasciarti nemmeno un minuto di tempo personale per riflettere o scrivere. Poi c’è la colazione e il turno di lavoro di otto ore. Nel mio caso ero addetta a cucire uniformi della polizia e dopo otto ore tornavo alla branda perché ero assistita da avvocati che riuscivano a fare rispettare i regolamenti sul lavoro. Le altre detenute invece dopo il primo turno ne facevano altre otto, dato che non avevano alcun sostegno all’esterno. Praticamente erano schiave che lavoravano 16 ore al giorno. Tornavano in branda all’una di notte, cercavano di lavarsi un minimo, in fretta e senza acqua calda, e poi subito a dormire prima di ricominciare di nuovo all’alba.

Hai cominciato a scrivere in carcere?
Appena mi hanno arrestata ho iniziato a prendere appunti. Ma in carcere sanno bene che il tuo principale mezzo di sopravvivenza psicologica è continuare a pensare, scrivere e fare arte e quindi cercano di impedirlo in ogni modo. Così mi hanno sequestrato tutto quello che avevo scritto. È stato un colpo duro perché per me era un appiglio importante – essere lì era orribile ma almeno, pensavo, avrei potuto trarne materia per un libro in cui testimoniare quest’esperienza. Quando sono uscita nel 2014 ho quindi subito cercato di raccogliere i miei ricordi. Ma dopo l’elezione di Trump ho iniziato a scrivere Read&Riot. Ero abbastanza depressa perché mi sembrava che l’elezione di Trump avrebbe ulteriormente peggiorato la situazione, pensavo all’effetto che avrebbe avuto sulla Russia: Putin ne è uscito decisamente rinforzato. Ora dice continuamente: «Vi lamentate delle nostre prigioni? Guardate cosa accade in America». «Dite che spendiamo troppo in armamenti? Guardate cosa fanno gli americani». Con questo libro ho voluto condividere quello che mi ha portata sulla strada della militanza politica.

Come si può articolare la resistenza contro sistemi come il trumpismo e il putinismo che tutto fagocitano e travisano, a partire dai fatti?
A me non interessa tanto distruggere le cose, mi interessa decostruirle: è diverso. Quando sono uscita dal carcere nel 2014 pensavo molto al ruolo che avrei potuto avere nella società russa. È stato un anno davvero terribile, Putin si era preso la Crimea: un lampante esempio di post-verità perché c’erano chiaramente truppe russe su quel fronte, ma semplicemente lo si negava e i giornali mainstream ripetevano la menzogna. La maggior parte delle persone tende a credere all’autorità, non ha i mezzi e le risorse per separare da sé la verità dalle fake news. Per questo mi sembra che il nostro ruolo oggi debba essere un po’ diverso perché quando il governo «impazzisce» il ruolo «eversivo», punk, per quanto strano possa sembrare, è di essere razionali. Abbiamo iniziato a «costruire» istituzioni invece di distruggerle: ad esempio organi indipendenti di notizie come MediaZone, scriviamo di prigioni e politica, analizziamo il sistema politico in Russia. In questo modo siamo riusciti a coinvolgere molte nuove persone nella militanza contro il Cremlino. Abbiamo fondato anche una rete di solidarietà verso i prigionieri in tutte le carceri russe, modellata sull’ACLU (l’unione americana per i diritti civili, ndr), un’associazione che potesse essere in grado di offrire assistenza in base ai casi individuali, con avvocati e attraverso la mobilitazione di famiglie e conoscenti. Insomma mi sembra che rivoluzionario oggi sia riportare una struttura in questo mondo, cominciando col separare la verità dalle menzogne e costruendo strutture alternative a quelle del potere.           

Quindi tutto sommato sei un’ottimista?
Se non lo fossi credo che morirei.

Hai provato rabbia quando ti hanno arrestata?
Non proprio. Non trovo che la rabbia sia l’emozione giusta quando ce n’è già così tanta dalla parte opposta: fra i magistrati che ci hanno condannate, nella televisione russa che ci denunciava come streghe venute a distruggere il paese. Ci accusavano di essere al soldo dei Clinton o di Soros o chissà chi altro. Insomma c’erano già abbastanza cazzate dovute alla rabbia e all’isteria. Io e i miei amici abbiamo deciso di tentare di rimanere zen. Anche se quando sei in galera non è certo facile.

Due settimane prima dell’elezione di Trump un vostro video lo raffigurava già presidente.
Non voleva essere una profezia ma ricordo di aver visto molto ottimismo fra gli amici americani, che non mi pareva giustificato, non mi sembrava radicato nella realtà. Credevo si sottovalutasse pericolosamente la popolarità di Trump fuori dalle grandi città. Volevamo avvertire che sarebbe stato opportuno essere più attivi, condividere il dialogo politico anche fuori dai centri urbani, comunicare. Fa parte della motivazione anche della nostra musica ed è la ragione per cui nelle canzoni non usiamo parolacce o gergo. Perché non vogliamo allontanare quelle persone che potrebbero potenzialmente recepire il nostro messaggio.

Che ruolo vedi oggi per le Pussy Riot?
Non è più un gruppo quanto un movimento, che vorremmo esistesse non solo in Russia ma anche in altri paesi. Così oggi posso andare a Chicago e incontrare lì ragazze in passamontagna che dicono «noi siamo Pussy Riot». A noi va benissimo. È sempre stata nostra intenzione creare un movimento. I membri del gruppo vanno e vengono, non c’è un organico fisso. E alcuni oggi si occupano soprattutto di giornalismo, altri di attivismo e magari ad altri basta dipingere. Ma la maggior parte rimangono artisti-attivisti.