Quasi venticinque anni fa, e precisamente nel 1991, l’Accademia di Svezia conferiva il Premio Nobel per la letteratura alla sudafricana Nadine Gordimer (scomparsa domenica scorsa per un cancro al pancreas), sottolineando come, «attraverso la sua magnifica prosa epica», Gordimer (nata a Springs, una piccola citta del Transvaal, a cinquanta chilometri da Johannesburg, nel 1923) avesse dato, parafrasando le parole dello stesso Alfred Nobel, un «grande contributo all’umanità».
Nel discorso stilato per l’occasione, dopo aver dissertato sul nodo che lega la parola scritta alla presenza (Writing and Being) e aver ricordato, tra gli altri, Ngugi wa Thiong’o, Breyten Breytenbach, Jack Mapanje, Mongane Wally Serote e tutti quegli intellettuali che, con il loro esempio, si erano opposti all’oppressione e alla discriminazione, nella poesia come nei fatti, finanche scontando la più dura detenzione, la scrittrice concluse richiamando i doveri di verità che la lingua ha di fronte alle sue stesse menzogne e aldilà delle stesse convinzioni o delle idee dell’artista (inteso come persona al servizio del genere umano), mettendo alla berlina il razzismo, il sessismo e il pregiudizio attraverso cui il potere, nella sua accezione negativa di domination, esercita la propria tirannia. A quell’altezza, ovvero al culmine di una carriera che già vantava oltre venti titoli tra romanzi, sillogi di racconti, testi per il teatro e di saggistica, il prestigioso riconoscimento non solo celebrava il talento indiscusso di una personalità di caratura internazionale, ma spostava l’attenzione della civiltà letteraria verso una realtà lacerata da conflitti e lotte fratricide per il riconoscimento dei più elementari diritti civili; lotte alle quali Gordimer aveva partecipato sin dai primi anni Sessanta, quando, dopo l’arresto dell’amica e attivista Bettie du Toit, abbracciò la causa anti-apartheid e arrivò ad essere uno dei più stretti collaboratori di Nelson Mandela. Con lui, Gordimer scrisse il celebre discorso che questi tenni nel 1964 in occasione del processo ai capi dell’African National Congress arrestati l’anno prima a Rivonia (I Am Prepared to Die), cementando un’amicizia e un sodalizio ultratrentennale.

Parole partigiane

Durante tutta la sua militanza, Gordimer svolse un ruolo sempre più decisivo nel movimento, conobbe la censura (il suo secondo romanzo, Un mondo di stranieri, del 1958, fu bandito per oltre un decennio, e lo stesso accade a Il mondo tardo borghese, del 1976) e considerò il giorno più importante della sua vita, quello in cui, nel 1986, testimoniò, nel processo Delmas Treason, a favore di Simon Nkoli, Mosiuoa Lekota e altri venti membri di spicco dell’Anc. Dal punto di vista storico-politico, il Nobel del 1991 preconizzava la svolta che, di lì a poco, nell’aprile del 1994, sarebbe stata ufficializzata dalle prime elezioni democratiche con suffragio universale esteso a tutte le etnie che portarono Mandela a capo della Repubblica Sudafricana, e mise anche la scrittrice in una differente posizione rispetto all’opera che fino ad allora tanti debiti aveva contratto con il suo engagement (è risaputo quanto, per Gordimer, contarono le letture da Jean-Paul Sartre e Albert Camus).
Per John Maxwell Coetzee (dopo di lei il secondo scrittore sudafricano celebrato col Nobel, nel 2003), la fine dell’apartheid segnò un decisivo spartiacque nella produzione letteraria dell’autrice di Occasione d’amore (1984) e Storia di mio figlio (1991): a detta di Coetzee, con «il rilassarsi degli imperativi ideologici che sotto l’apartheid avevano oscurato tutte le questioni culturali», Gordimer si liberò dalla condizione di lacerazione che l’aveva spinta a porre, al centro della sua narrativa, «personaggi, per lo più sudafricani bianchi, che in termini sartriani vivono in malafede fingendo con se stessi di non sapere come stanno le cose». Se ciò è in parte vero, almeno stando alla lettura di romanzi come Un’arma in casa (1998) o L’aggancio (2001) – soprattutto da quest’ultimo Coetzee trae le sue conclusioni; se, dunque, dal pieno compimento del processo democratico in Sudafrica la scrittura di Gordimer apparve più scabra ed allusiva, meno schematicamente avvinta al dato reale, ma più interessata ad esplorare territori inediti ed originali, è altrettanto evidente come la pulsione che, tra anni Cinquanta e Ottanta, l’aveva portata a interrogarsi incessantemente su cosa significasse, per un intellettuale, scrivere in nome di un popolo per essere letto da un popolo, non venne mai del tutto meno.

Una parabola esistenziale

Nei racconti composti nel primo decennio del nuovo secolo e poi raccolti nel 2007 in Beethoven era per un sedicesimo nero (pubblicato in italiano, come tutti i suoi altri titoli, da Feltrinelli), l’impressione di Coetzee è giustificata dalla scommessa stilistica di Gordimer, che riversò tutta la sua sapienza narrativa nella forma del componimento breve, sulla lastra delle poche pagine che catturavano, per effetto di una suggestione culturale o del fascino di un dettaglio di cronaca, il senso di una parabola esistenziale, facendo rifulgere l’essenzialità di un atto linguistico prima ancora che narrativo; in queste shortstories, la concrezione formale dei rapporti umani, dello scacco della lingua e della morte – il tutto sorretto da quell’analogia senile e corporale che diventa il nucleo della realtà, lo spartiacque tra quanto è solo pensato e ciò che davvero si patisce – si coniuga in modo imprevedibile al rovello della solitudine: tema irreparabilmente legato alla perdita di qualcuno, all’assenza non condivisibile di un affetto, di una parte di noi che è stata e ora non è più se non nei ricordi, cioè «nella possibilità del ricordo, nel richiamare alla memoria tutti i momenti, le fasi, i posti, le emozioni e le azioni di ciò che lui (la persona scomparsa) era, di come ha vissuto mentre era». Ma come in ogni autentico scrittore, ovvero in ogni essere umano consapevole dei propri mezzi e delle proprie responsabilità etiche, una scommessa formale non fa che preparare il rilancio di una nuova posta, sicché, dalla rastremazione più spinta di racconti come «Storia», «Gregor» o «Allesvorleren», nel 2012 Gordimer tornò al romanzo con Ora o mai più, sorta di summa della sua intera esperienza letteraria in cui la vicenda dei due protagonisti principali, il bianco benestante Steve e la nera zulu Jabu – cresciuti entrambi, ma su fronti diversi, nella lotta al regime segregazionista -, raccoglie la sfida di un paese giovane, un paese in cui ricostruire sulle macerie del passato è forse più difficile che consegnarne la memoria (ed il senso) agli sciacalli della Storia. I poli socioculturali de L’aggancio vengono qui rovesciati: se nel primo è la donna, Julie, l’espressione dell’ordine costituito, mentre Abdu, l’uomo di cui si invaghisce, rappresenta, in termini sociologici, l’altro, il diverso, in No Time Like the Present (questo il titolo originale di Ora o mai più), l’inversione del sesso riedita in una nuova chiave, più realistica e connotata, i termini eminentemente politici di Luglio (July’s People, del 1981), ponendo in una chiave scettica e dubitativa, fin quasi simbolica, l’ineludibile tema della giustizia terrena.
Sessant’anni dopo l’esordio, nel 1953, con I giorni della menzogna, Gordimer ha affidato alle oltre quattrocento pagine del suo ultimo, grande romanzo, il proprio testamento artistico e il compito di fare i conti con quella storia che, come riporta l’epigrafe tratta da Guerra e pace, «ha a che fare con manifestazioni della libertà umana nel contesto del mondo esterno, con il tempo e con la dipendenza dalle cause», ricordando a noi lettori, con le parole del poeta e attivista dell’African National Congress Keorapetse Kgositsile, come «sebbene il presente rimanga / Un luogo pericoloso in cui vivere / Il cinismo sarebbe un lusso avventato».