È una lettera d’amore ad una città e alla sua cultura quella che Nadia Wassef propone in La libraia del Cairo (Garzanti, pp. 236, euro 17, traduzione di Bianca Bernardi, l’appassionante memoir nel quale l’attivista e intellettuale egiziana, che vive da tempo a Londra, racconta come se si trattasse a un tempo di un personaggio letterario o di una donna in carne ed ossa – perché fondata insieme alla sorella e a un’amica e pensata come una sfida alla cultura patriarcale -, la storia della libreria Diwan, le cui vicende hanno accompagnato una stagione profondamente creativa della metropoli egiziana. Un’esperienza che Wassef presenterà questa sera nell’ambito del festival Pordenonelegge (Capitol, ore 21,30) insieme a Marianna Maiorino.

Diwan fu inaugurata l’8 marzo del 2002 e lei lo descrive come uno spazio che si prendeva cura delle sue frequentatrici. Cosa ha rappresentato per le donne del Cairo?
È difficile parlare delle «donne del Cairo» in generale, così come è altrettanto impossibile rappresentare «le donne di Roma». Ma posso dire che gli uomini e le donne che frequentavano Diwan differivano a seconda dell’ora del giorno. Al mattino avevamo principalmente madri e figli, o amici, che si incontravano per un caffè e curiosavano tra gli scaffali. Nel pomeriggio e la sera, abbiamo avuto più studenti e professionisti. Penso che quello spazio rappresentasse per molti un luogo votato all’amore per la cultura e per la lettura. E penso che questa sia una delle cose più belle delle librerie: sono spazi pubblici dove si svolgono ricerche private.

La scrittrice e attivista Nadia Wassef

Nel libro spiega come in Egitto la letteratura fosse «morta per mano della burocrazia» e della censura che controllava ogni aspetto della società nell’ambito di quel «socialismo fallito» che ha dominato a lungo il Paese. Qualcosa è però iniziato a cambiare pian piano: forse è stato anche grazie a iniziative come quella di Diwan?
In Egitto le cose sono cambiate all’inizio del XXI secolo e questo per molte ragioni: felici coincidenze che significavano che ci trovavamo al momento giusto nel posto giusto. C’era un grande ottimismo, una forte speranza di cambiamento, politiche economiche promettevano prosperità, oltre al fatto che una generazione di giovani che avevano studiato all’estero stava scegliendo di tornare a lavorare nel proprio Paese. Quanto ai libri, nel 2002 è stato pubblicato il romanzo Palazzo Yacoubian (in Italia, Feltrinelli, 2006, ndr) di Ala Al-Aswani che è diventato il primo bestseller egiziano da decenni. Chi era abituato a leggere narrativa colta e le persone che hanno sempre sfogliato solo i giornali si trovavano ad apprezzare e a discutere dello stesso libro. E il fatto che lo stesso Al-Aswani facesse il dentista a tempo pieno, e lo scrittore solo part time, rappresentava anche un forte cambiamento rispetto alla nozione abituale di scrittore come professionista intellettuale o della cultura. Il segnale che chiunque poteva diventare uno scrittore; e molti lo hanno fatto. Così sono apparse anche nuove case editrici desiderose di pubblicare nuovi ed entusiasmanti generi di letteratura.

Tra i suoi scaffali Diwan ha «inventato» una categoria, quella di «Egypt essentials», riunendo testi che raccontavano in molti modi la storia del Paese fin dalle sue origini: se l’egittologia è un’invenzione occidentale, la libreria sembra aver così ricongiunto lo sguardo proiettato dall’esterno verso l’Egitto con quello dei suoi stessi cittadini…
Amo la storia. E penso che gli individui e le comunità trarrebbero beneficio da una maggiore intimità con il passato. Non voglio riscrivere la storia, ma vorrei che si disponesse di una lente più ampia nella lettura degli eventi, tale da permettere di inserire punti di vista diversi e voci inedite. Credo anche nella possibilità di fare proprio il passato, piuttosto che nel fuggire da esso. Quando penso ai manufatti dell’Antico Egitto sparsi in tutto il mondo, dalle maschere, agli obelischi, a interi templi, se i Paesi insistono nel mantenere ciò che non gli appartiene, allora credo che dovrebbero raccontare tutta la storia: come sono stati presi quegli oggetti e quei simboli, perché e da parte di chi. Da trofei di un mondo coloniale, quei manufatti si trasformerebbero così in prove e ammissioni degli illeciti che sono stati perpetrati.

Nel libro rivive l’atmosfera del Cairo cosmopolita di un tempo, un clima simile a quello che ha descritto più volte proprio Ala al-Aswani nei suoi romanzi. E la stessa nascita di Diwan sembra evocare un contesto simile. Eppure, viene da chiedersi cosa resti davvero di quell’atmosfera che, almeno apparentemente, sembra perduta.
La bellezza del mondo, e il suo dolore, risiedono nel cambiamento. Purtroppo, e per fortuna, niente rimane uguale per sempre. Ho scritto degli anni della vita di Diwan e del Cairo perché non volevo perderli, vederli svanire un giorno dalla mia memoria. Sono grata per quel periodo e quei momenti e sono in pace con il fatto che qualcosa di nuovo li abbia sostituiti. Questa è la vita, ed è bella così. Il Cairo è sempre stato e sarà sempre cosmopolita, solo in un modo diverso rispetto al passato.

Lei spiega di aver deciso di lasciare l’Egitto dopo la presa del potere da parte dei Fratelli musulmani: la rivoluzione egiziana e la stagione delle primavere arabe che tanta speranza avevano acceso anche al Cairo non sembrano aver mantenuto le loro promesse, cosa è andato storto?
In realtà, niente è andato storto. Tutto è come dovrebbe essere. Le rivoluzioni richiedono molto tempo. Dieci anni non sono niente nella storia di un paese come l’Egitto che risale fino al 3150 a. C. circa con l’unificazione dell’Alto e del Basso Egitto. Il vero cambiamento avviene in base a questo calendario, non secondo il nostro. E ogni esperienza fornisce lezioni per coloro che desiderano imparare.

Il suo lavoro a Diwan si intreccia con quello per il Women and Memory Forum. Può parlarci dei progetti del Forum e dell’accoglienza che questa attività ha trovato nel mondo arabo e in Egitto?
Ho lavorato con il Women and Memory Forum prima dell’esperienza di Diwan, quando avevo poco più di vent’anni. Si tratta di un’organizzazione impegnata a rileggere la storia culturale del mondo arabo da una prospettiva sensibile al genere. In questo senso, penso che tutti abbiamo bisogno di contesti che si occupino di donne e memoria. Non riesco a pensare a un solo Paese che non trarrebbe beneficio da un simile sforzo. Quante donne mancano dalla storia d’Italia semplicemente perché non si è scritto di loro all’epoca in cui hanno vissuto? Ricordo di aver letto la Medea di Euripide all’università e di essere rimasta colpita da un brano in cui Medea si rivolge al coro delle donne corinzie: «Ora cessate, muse degli antichi cantori/ di raccontare la storia della mia infedeltà/ Perché non per noi Febo, signore della musica/ Dona alla lira la divina/ Potenza, altrimenti avrei dovuto cantare una risposta/ All’altro sesso. A lungo». Se le storie fossero state scritte da chi è stato costretto a lungo al silenzio, racconterebbero qualcosa di diverso. Ed è ciò che abbiamo bisogno di sentire: più racconti dalle voci che fin qui non abbiamo potuto ascoltare.

Il suo libro si apre con una citazione dalle «Città invisibili» di Italo Calvino sull’importanza delle risposte che una metropoli può dare ai nostri quesiti: che risposta le ha saputo dare il Cairo e, soprattutto, a quale domanda?
Non si tratta di una sola domanda, ma di molte. Il Cairo mi ha reso ciò che sono. È un po’ come mia madre. Non vivo più con lei e ho capito che per avere una relazione con lei non ho bisogno di essere fisicamente lì. Il Cairo vive dentro di me. Siamo responsabili del modo in cui facciamo crescere le nostre relazioni: io e il Cairo abbiamo un legame eterno che cambia nel tempo. E la città mi ha anche dato la sicurezza di appartenere a qualcosa che si trova ovunque e, allo stesso tempo, da nessuna parte: in fondo a un mare molto lontano e azzurro c’è un’ancora che mi permette di andare alla deriva e che, allo stesso tempo, mi fa da casa ovunque: una consapevolezza molto potente e liberatoria.