La tesi alla base di Revolt. La ribellione nel mondo contro la globalizzazione (La nave di Teseo, pp. 556, euro 22, traduzione di Chiara Spaziani) del giornalista israeliano Nadav Eyal, già vincitore del Sokolov Award, il Pulitzer locale, non potrebbe essere più netta. Di fronte alla crisi manifesta della globalizzazione, alla sua incapacità di garantire prosperità e diritti a tutti, far cadere anche per gli individui e non solo per merci e flussi finanziari ogni sorta di muro o barriera, affrontare concretamente il tema del clima e dell’ambiente prima che, e la pandemia in atto sta lì a dimostrarlo, sia troppo tardi, non ci si deve mai dimenticare, suggerisce il giornalista, che «nel 1950 meno della metà degli abitanti del mondo poteva leggere e scrivere; il dato odierno è l’86%» e che «tra il 2003 e il 2013 il reddito medio mondiale pro capite è quasi duplicato».

Senza negare che alla crescita esponenziale di Paesi come la Cina o l’India abbia corrisposto la desertificazione manifatturiera in Europa e negli Stati Uniti, Eyal ribadisce che l’unica soluzione possa essere «globale», nello sviluppo di istituzioni e di un’economia che abbatta ancor di più, nel segno però dell’equità, ogni sorta di confine. Considerazioni che accompagnano il viaggio che ha compiuto dentro la crisi maggiore della globalizzazione, dalla Grecia del default alle ex miniere della Pennsylvania, tra i fondamentalismi del Sud del mondo e i nazional-populismi occidentali, con la consapevolezza che per rispondere al malessere e all’inquietudine che alimentano risentimento e rivolte, anziché rinchiudersi non solo metaforicamente all’interno delle proprie realtà comunitarie o nazionali si debba scommettere e battersi per un mondo giusto e globale.

Il giornalista israeliano Nadav Eyal

Al termine del suo viaggio attraverso le rivolte e le crisi sociali cresciute in molti Paesi negli ultimi anni, lei spiega come il mondo abbia bisogno di «riforme su scala globale, di un ripensamento strutturale dell’economia mondiale». Dalla crisi della globalizzazione, dal suo deficit di equità e giustizia, si può uscire quindi solo con un mondo più globale? E attraverso quale via?
Questo libro documenta quanto sia davvero fragile il progresso che abbiamo raggiunto e testimonia del rischio che la civiltà possa volgere anche in tempi brevi verso le tenebre. Quanto alla strada che si deve percorrere per migliorare le cose, passa prima di tutto per un cambiamento della politica. Quella del XX secolo sta morendo, come ha dimostrato la pandemia in corso che ha reso evidente quanto sia ormai irrilevante, vuota. Non è riuscita a prevenire la crisi finanziaria del 2008, non riesce ad affrontare il cambiamento climatico in modo efficace, e ora guarda al contrasto al Covid-19 attraverso strutture di potere locali e nazionali poco efficienti. La Storia è realistica per natura: un mondo globalizzato è il nostro modo migliore per sopravvivere. E intendo in senso letterale, fisicamente. Perciò abbiamo bisogno di istituzioni globali dotate di potere reale. Prima di tutto si devono però far riflettere le persone sul fatto che se la globalizzazione non è un «villaggio ideale» non è neppure un male in sé.

Dalla crescita dei fondamentalismi all’affermazione dei nazional-populisti, dalla vittoria della Brexit all’elezione di Trump, l’evocazione del ritorno ad un mondo chiuso, costruito su false certezze identitarie ha sfruttato i timori, l’incertezza e le conseguenze sociali negative, per una parte della popolazione, indotte dalla globalizzazione. Eppure il suo libro suggerisce che da queste crisi c’è molto da imparare. In che termini?
In effetti credo contengano diverse lezioni di cui tener conto. La prima è riassunta nella citazione di Frederick Douglass (tra i primi politici afroamericani, abolizionista e sostenitore del diritto di voto per le donne che nel 1872 fu candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti, ndr) con cui si apre il testo: «Senza lotta non ci può essere alcun progresso». Quindi dobbiamo muoverci, cambiare e non fare affidamento sullo status quo. Abbiamo bisogno di un regime fiscale globale in modo che anche i super ricchi paghino le tasse. Dobbiamo compensare i lavoratori che perdono il lavoro a causa delle rapide trasformazioni produttive. Serve un piano coordinato e vincolante per affrontare il cambiamento climatico. Il nazionalismo e l’estremismo prosperano quando nessuno si accorge di ciò che non va. Ad esempio quando nessuno si prende cura della rust belt del nord industriale dell’Inghilterra. E se ogni protesta o rimostranza è derubricata dalle élite come un atto razzista, bigotto o frutto dell’ignoranza, allora significa che a ciò che accade nella società non si presta la giusta attenzione. Non tutti coloro che pongono delle domande sull’immigrazione o sulla cultura del proprio Paese sono razzisti o xenofobi. Così, ecco un altro esempio, chi ha votato per Trump lo ha fatto spesso pensando che era stato a lungo messo da parte e ora vuole invece far sentire la propria voce. Rifarsi ai valori dell’illuminismo significa avere la meglio in una discussione, non metterla a tacere.

Per molti versi i processi che hanno reso il mondo più «piccolo» e interconnesso sono stati a lungo legati al ruolo internazionale della politica e dell’economia statunitensi. Poi, gli effetti negativi della globalizzazione sono «tornati a casa» costruendo lo scenario sociale di un declassamento del ceto medio e di un impoverimento di ampi settori della società che Trump ha saputo sfruttare a suo vantaggio quattro anni fa. Ora cosa ci si deve aspettare?
Ovviamente mi aspetto che Biden faccia un lavoro diverso e migliore rispetto a Trump. Anche se di quanto è accaduto negli ultimi anni negli Stati Uniti si dovrà tenere conto ancora. Mi spiego. In questo momento i progressisti americani stanno festeggiando come fecero i monarchici britannici nella seconda metà del 1600 dopo la restaurazione e l’incoronazione di Carlo II (che fece seguito alla rivoluzione guidata da Oliver Cromwell, ndr). Vogliono cancellare in fretta quanto è successo e pensare che Trump quattro anni fa sia stato solo molto fortunato. Ma ho il sospetto che si tratti di un grosso errore. Trump era un nazionalista che non ha mai fatto i compiti e dobbiamo ringraziare Dio che sia andata così. Ma il rischio che arrivino altri, della stessa tendenza, in grado di farlo, resta concreto.

In parallelo con la crisi degli ultimi anni si è costruita quella che lei definisce come «l’implosione della verità», vale a dire il modo in cui la crescita delle disuguaglianze sociali, specie nelle società occidentali, ha nutrito una diffusa sfiducia nei confronti dei governi, dei media, degli «esperti» di ogni settore, fino a costruire lo scenario in cui si sono andate affermando le «verità alternative», le fake news e ogni sorta di menzogna. Come invertire questo processo?
Innanzitutto si deve considerare come questo fenomeno riguardi soprattutto le generazioni nate prima dell’era digitale. I nati nell’era di Internet hanno migliori capacità per smascherare le bugie, soprattutto online. In secondo luogo, è evidente che i giganti della rete dovrebbero essere ritenuti responsabili di quanto contribuiscono a diffondere. E invece traggono profitto da algoritmi incentrati sul coinvolgimento, sulla rabbia e sulle bugie. Se non si daranno una regolamentazione da soli, lo devono fare le istituzioni. Ciò che però dovrebbe preoccuparci di più è come ogni sorta di falsità sia vista come qualcosa di legittimo da parte di molte persone. In questo senso, incolpare Facebook è solo una parte della storia. Le persone non si sentono più vincolate dai fatti e talvolta diffondono bugie pur sapendo che sono tali. Hanno visto come chi aveva una qualche autorità ha mentito loro per così tanto tempo e non credono più a niente né a nessuno. Quindi, il processo si può invertire solo se si comincia a tener conto dei fatti, della realtà delle cose. Nessuno può essere solo parzialmente credibile in questi giorni. È tutto o niente.

Nel suo itinerario lei fa una tappa a Roma, davanti alla statua di Giordano Bruno, «uno dei primi martiri della scienza», per sottolineare come la rivolta contro la globalizzazione incarni in parte il volto attuale della lunga crociata contro il progresso, contro i principi e l’eredità dell’illuminismo, che ne sono in qualche modo all’origine.
Certo e perciò si deve ribadire come quei principi siano alla base della civiltà contemporanea, pur con tutte le storture che essa può contenere. La democrazia e i processi decisionali globali non possono che rafforzarsi da una simile visione delle cose. Inoltre, sul piano squisitamente politico, tutti coloro che accettano la nozione di progresso, dai comunisti ai liberali conservatori dovrebbero vedere chi sono oggi i veri rivali. Vale a dire i nazionalisti etnici, i fondamentalisti, i ciarlatani e chi manifesta contro la scienza. Ma riaffermare oggi i valori dell’illuminismo significa soprattutto operare concretamente, fare scelte nette che facciano crescere le società, come hanno fatto i socialdemocratici in Europa dopo la guerra o Roosevelt negli anni precedenti. Se le paure e le esigenze delle persone non vengono soddisfatte, volgeranno al peggio fino a mettere in discussione la democrazia stessa.