A conclusione del Viaggio in Italia con il cinema tunisino che ha toccato diverse città italiane, Nacer Khémir approda a Palermo per l’ultima tappa che lo vedrà presentare il suo Les baliseurs du désert, primo film della trilogia del deserto realizzato nel 1984, recentemente restaurato dalla Cinematek Belga e presentato alla 74esima edizione della Mostra del cinema nella sezione Venezia Classici. La tappa palermitana ha il sapore di una reunion, un abbraccio tra le due sponde del Mediterraneo culturalmente e geograficamente così vicine. L’evento sarà anche l’occasione per raccontare della neonata Cineteca Nazionale di Tunisi che verrà inaugurata il prossimo marzo, luogo dal tribolato percorso politico che ricorda quello dello spazio di promozione cinematografica pubblico più importante della città dove tra l’altro si svolgeranno le proiezioni, il Cinema De Seta ai Cantieri Culturali alla Zisa, ancora oggi privo di un convinto sostegno istituzionale. A testimonianza dell’intento di dialogo e collaborazione tra i due paesi anche per il futuro, la rassegna ha coinvolto la Cineteca Italiana di Milano, la Cineteca Nazionale di Roma e la Filmoteca Regionale Siciliana oltre che realtà significative e “resistenti” come il CinemaZero di Pordenone e il PostModernissimo di Perugia.

In Les baliseurs du désert lo sguardo sul deserto, e quindi sul mondo arabo, è uno sguardo sospeso che racconta la storia di un villaggio in una dimensione quasi onirica. Mentre i giovani spariscono colpiti da una strana maledizione, i bambini del villaggio sognano luoghi misteriosi e lontani di un’Europa araba. Nonostante sia un film di più di trent’anni fa sembra che parli del nostro presente.

Ho scelto di fare un cinema che provasse a tradurre la problematica di fondo di quel mondo arabo, ovvero la lotta di generazioni di politici, poeti e sindacalisti che hanno provato a cambiare le cose, a divenire altro dalla modernità all’interno del mondo arabo, e che purtroppo hanno fallito. Ed è un po’ l’immagine di questi viandanti, i baliseurs, che non sono i migranti dei nostri tempi ma qualcosa di diverso. Poi ci sono i bambini, che credono di dover andare a Cordoba,in Andalusia, perché l’Andalusia rappresenta una fonte di civilizzazione che già nel X secolo era incomparabile con altri luoghi per tolleranza, apertura e per molte altre cose. Questa era un po’ l’idea del film, che purtroppo è molto attuale: i problemi che ponevo 33 anni fa sono ancora più violenti oggi.

L’ondata del cinema africano degli anni ’60 e dei decenni successivi ha mostrato un continente che affrontava la decolonizzazione a partire da un’esigenza di panafricanismo che riuniva autori del Maghreb e autori sub-sahariani, accomunati dalla proposta di un cinema fatto di immagini autentiche perché raccontate con lo sguardo degli intellettuali dei differenti paesi. Cosa è rimasto oggi di quella comunione d’intenti? Secondo lei il Mediterraneo è una frontiera a nord, o il mondo arabo si sente più parte del Mediterraneo che dell’Africa?

Oggi il Mediterraneo è un mare morto: per millenni è stato il luogo di scambi e di incontri, ma si è trasformato in un cimitero. Ed è storicamente orribile, perché è il luogo in cui una parte delle civilizzazioni si è formata: anche a causa delle guerre, ma non c’è mai stata una chiusura come questa. D’altra parte il mondo arabo non sta bene, si trova in una situazione peggiore di quella del periodo successivo alla decolonizzazione. È sufficiente guardare alla storia dell’Egitto, dove c’era molta più speranza: dopo la Guerra del Golfo la situazione ha cominciato ad aggravarsi e le cose a deteriorarsi. Anche l’Africa ha difficoltà a rompere le catene, a liberarsi. Ma non c’è dubbio che sia necessario sviluppare un incontro non più nord-sud ma sud-sud, tra Africa e mondo arabo, due realtà un po’ oppresse che sono i luoghi della speranza di oggi. Il Mediterraneo ormai è un luogo chiuso e vietato.

La rassegna nella quale presenta il suo film è anche un omaggio a Roberto Rossellini nel cinquantesimo anniversario delle riprese de Gli Atti degli Apostoli girato proprio in Tunisia. Rossellini è stato un’influenza per lei? Qual è il suo rapporto con il cinema italiano? 

Quando ero bambino per me il cinema parlava italiano, non inglese. L’italiano e lo svedese – adoravo Bergman – erano le lingue del cinema. Amo molto Rossellini, per il suo modo di fare e non per la scelta di girare in Tunisia, ma mi sento più vicino a Pasolini o persino a Visconti, per ragioni molto diverse: mi attira la dimensione del racconto e del mito in Pasolini, e il lavoro sulla memoria e sulla precisione della memoria in Visconti.

Il racconto e il mito rappresentano ancora per lei una dimensione possibile, o addirittura desiderabile, per il cinema di oggi?

Persino più importante che mai, perché oggi i film sono ridotti a una dimensione più immediata e mediatica. Il cinema subisce i diktat dei media, degli eventi e della politica. Il cinema è sempre più vicino a forme di consumo.

Uno dei film che saranno presentati a Palermo è il documentario di Mohammed Challouf Tahar Chériaa: à l’ombre du baobab, che racconta della nascita del festival di Tunisi. Quel festival rappresenta ancora un luogo di riferimento per i cineasti arabi e africani? Quali sono i festival più significativi del mondo arabo oggi?

Tutti i festival, come gli uomini, invecchiano e cambiano, e il paesaggio circostante cambia, dunque bisogna inventare cose nuove. Le Journées cinématographiques de Carthage sono state create nel ’68 perché esistesse un luogo, che allora non c’era, dove il cinema africano e arabo potesse esprimersi. Oggi le cose sono cambiate e secondo me il festival di Carthage avrebbe dovuto essere più inventivo, più creativo. Il tentativo di imitare i grandi festival (Cannes, Venezia, Berlino) lo penalizza, dovrebbe provare a essere il luogo di qualcosa di diverso. Ma anche questo è un diktat dei media: affinché se ne parli occorre proporre determinate cose, e i festival non sono particolarmente interessati ad esempio a film come quello che ho realizzato su IbnʿArabī, un grande mistico andaluso del Basso Medioevo, che dura più di tre ore e non tratta di un evento particolare. I media fanno della cultura una merce. Sono necessari dei margini, degli spazi: ma è difficile, richiede tempo e soprattutto molto coraggio. Il mio ultimo film, Hamsou-el-rimal (Whispering Sands), è stato presentato nel 2017 al festival di Dubai.

Chi sono oggi i registi che le interessano nel mondo arabo?

Guardo con attenzione i giovani cineasti, provo a vedere il massimo di cortometraggi possibile. Il problema è che la produzione contemporanea favorisce i temi politici dell’istante, la problematica politica ha completamente divorato lo spazio dell’immaginario. Se si vuole produrre un film è necessario che il film tratti di un tema che interessi il Nord, che dal punto di vista tematico sia quasi dettato dai media. Non puoi parlare della cultura profonda del mondo arabo o del mondo africano, perché non troverai mai i soldi per fare il film. È un po’ il problema di questo cinema: è troppo connesso agli eventi dell’attualità. Ed è un pericolo, perché gli eventi cambiano molto velocemente, e quindi si ha un cinema che non coltiva cose a lungo termine, è un cinema a breve termine.

2 febbraio 2018