Esplorare il laboratorio dei grandi classici dell’Ottocento russo può essere il miglior pretesto per illustrarci il proprio. E quando abbiamo a che fare con Nabokov, non sorprende che il narcisismo risulti il più affilato degli strumenti critici. Tornano in una nuova traduzione le sue leggendarie Lezioni di letteratura russa (Adelphi, p. 467,€ 24,00), viaggio disinvolto e coinvolgente come pochi tra testi notissimi – dal Cappotto alla Morte di Ivan Il’ic – raccontati dall’interno e nelle pieghe più recondite, alleggeriti in qualche modo dalla patina del classico e svelati nella loro essenza di perfetto congegno.

Invitandoci a condividere «non le emozioni dei personaggi, ma quelle dell’autore: le gioie e le difficoltà del creare», Nabokov disincentiva sì le consuete letture psicologistiche ammantate di metafisica, ma soprattutto ci propone un autoritratto della sua poetica, che assomma l’equilibrio razionale e ispirato di Tolstoj, il vortice della creatività gogoliana che disorienta e esonda, l’implacabile ironia di Cechov sempre sotto traccia.

Interessato ai particolari dai quali scaturisce l’atmosfera del tempo e del testo, siano essi ruote di carro come palestre di filosofia popolare o l’anguria trangugiata in barba a ogni romanticismo dall’amante della Signora col cagnolino, Nabokov con dichiarato arbitrio orienta il gusto del lettore verso l’intensità espressiva fine a se stessa, ostenta giudizi irriverenti, mette a nudo gemme e inceppi, suggerisce, a più riprese, modelli di fruizione incentrati su un’attenta e meticolosa ponderazione, richiedendo un avvicinamento in tutto fisico, quasi viscerale al testo: «le parti spezzate e schiacciate si ricomporranno nella vostra mente e schiuderanno la bellezza di un’unità alla quale voi avrete dato qualcosa del vostro stesso sangue».

Tutto è permesso
Tanta libertà espositiva e tanto brio, ma soprattutto il costante e esplicito orientamento sul fruitore sono però anche a ricordarci che non ci troviamo di fronte a un libro pensato per essere tale, ma, come recita la copertina, a una raccolta di lezioni. Con ovvie, relative implicazioni: fin dalla prima edizione inglese del 1981, il libro si presentava allo stesso tempo avvincente, trascinante, ma anche caotico e disomogeneo, assemblato senza un progetto complessivo. Il suo stile fluido, incisivo, mai accademico sebbene pensato per gli studenti della Cornell University alla fine degli anni Quaranta, si addice perfettamente al lettore generalista di oggi, in un quadro tra l’altro attualissimo di scritto-parlato, pianificato con cura per essere detto in aula, al tempo stesso molto più che una serie di appunti e molto meno cesellato di quanto avrebbe richiesto se concepito in consapevole autorialità da quello che già si presentava come un nuovo classico e si apprestava a scalare gli stessi allori in terra americana.

Luogo per l’appunto di apprendistato a una prosa inglese semi-creativa, le lezioni erano state etichettate in vita come «da non pubblicare mai. Nessuna!». Inascoltato, più che a ragione, Nabokov ci restituisce sintesi smaglianti dell’orchestrazione verbale e strutturale dei grandissimi russi, letture di singole opere sempre incisive e illuminanti (con pagine imperdibili sulle Anime morte e Anna Karenina, soprattutto sulle simbologie e il metaforismo tolstoiano), segmenti biografici talvolta un po’ didascalici ma anche oltremodo sfiziosi (in particolare sul Gor’kij rivoluzionario, tra beffa – «la polizia sovietica lo avrebbe domato in un batter d’occhio» – e inno al vitalismo), capitoli di taglio più estensivo sulla censura e il cupo Novecento sovietico, l’infamante e intrinsecamente russa volgarità autocompiaciuta (pošlost’, che con calembour inglese diventa una lust molto posh), la teoria della traduzione come raro territorio di modestia e sottomissione quasi sacrale al testo di partenza.

Il capitolo Dostoevskij
Nabokov si permette di tutto: citazioni interminabili, l’intero racconto cechoviano Nella bassura riprodotto per un oltre metà, tra brevi notazioni e raccordi, che ne fanno, in realtà, un piccolo prodigio fuori di ogni genere, ma anche venti pagine di note a Anna Karenina che, per quanto sapide, a tratti finiscono giocoforza fuori contesto.
Il metodo critico è il fuoco di fila, il giocolierismo verbale, lo sfoggio speculare e a tratti mimetico di catene di metafore a svelarne altrettante, un’analisi testuale dissettiva e molecolare, che dal particolare giunge brevi manu a inabissamenti nel dettaglio, svelando le «orge nomenclatorie» di Gogol’ (di energia quasi sciamanica) e le sue nitrogliceriniche similitudini espanse, il senso di Turgenev per la luce, il pulsante non-detto cechoviano immerso in «nebbiolina verbale iridescente».

L’unilateralità è smaccata, a celebrare con piglio radioso e indefesso il gioco divino che interessa solo in quanto arte e che rimane arte solo finché non si ammanta di sovrastrutture etiche o ideologiche, finché ci è permesso di ricordare che è gioco. A parte il piacere, indiscutibile, della lettura, la conoscenza dell’Ottocento russo ne esce arricchita di tanti oculati, adamantini, sulfurei tasselli, che insieme fanno storia letteraria più che paludati saggi e repertori.

Poi c’è Dostoevskij, l’aperto dileggio del quale ha fatto per decenni la leggenda di questo libro. Ovvio il piano d’attrito tra il viscerale spiritualismo conservatore e il laico panestetismo progressista, tra una prosa grezza con fama d’estemporaneità e quella levigatissima e pluristratificata di Nabokov.

Lucidità compromessa
Eppure dal dissidio stilistico emerge un odio così furibondo da lasciar presupporre dissimulata invidia, fino a togliere lucidità alla strategia di Nabokov, che invece di ricorrere a un insinuante dissesto in chiaroscuro (come fa per Turgenev) insiste ossessivamente con l’etichettatura di Dostoevskij a cattivo giallista e utente di ospedale psichiatrico in libera uscita, resa dal tempo ancora più inadeguata. Traspare oggi, semmai, una certa superficialità di giudizio, frutto del disprezzo e in tutto coerente con l’oltranza intellettuale di Nabokov: nell’Idiota in particolare, dove Ganja è erroneamente presentato come segretario di Tockij invece che del generale Epancin, si racconta il tira e molla di rinunce reciproche altruistico-masochistiche tra Myškin, Nastas’ja Filippovna e Aglaja della terza e quarta parte, ma poi il riassunto sequenziale prosegue tornando per dieci righe alle vicende a cavallo tra prima e seconda parte e facendole sfociare direttamente nell’epilogo.
Le curatrici – per il côté anglistico Susanna Zinato e la russista Cinzia De Lotto – altrove meritevoli, salvo che per l’insopportabile sudditanza culturale dei cognomi femminili anglicizzati – Anna Karenin! – pur segnalando in un corposo apparato altre lievi sviste, non azzardano né qui né altrove chiarimenti che avrebbero giovato al corretto inquadramento di un libro che – pensato per altro – resta uno straordinario ambasciatore dell’anima più fulgidamente sovversiva della letteratura russa.