Un cieco in poltrona, che crede di essere solo, e un uomo nudo appollaiato sul davanzale a fissarlo e a fargli le linguacce. Il cieco a tavola con la sua amatissima donna-bambina e di fronte l’uomo nudo che solleva le posate in perfetta sincronia con lui. L’uomo nudo che gli sfiora i capelli, gli solletica la fronte e le labbra, e il cieco prova a scacciare una mosca. Una satanica presenza, invisibile ma visibilissima, che realizza il proprio sogno di farsi regista di una grottesca e per lui esilarante caricatura della vita. Da qui la sua risata, prima muta, poi sinistramente evanescente. Una risata nel buio.
Per realizzare questa incomparabile e lancinante teatralizzazione della vita (c’è anche il sipario trasparente del pianterreno di uno chalet di montagna), che condensa secoli di riflessione sulla tragicità dell’umorismo, il tardo Nabokov russo, in procinto di trasformarsi nel Nabokov americano della maturità, ha avuto bisogno di scrivere un romanzo intero, spassandosela a tracciare i fili e le partiture che conducono a questa chiusa.
Ancor più divertente – e comunque occasione più unica che rara per tornare sulla propria produzione recente con fortissime motivazioni esistenziali e creative – deve essere stato per il nobile russo raffinatissimo e snob, bilingue inglese dalla culla, cittadino europeo da quando, a vent’anni, era emigrato prima in Germania e poi in Francia, rimettere in gioco i fondamenti linguistici e culturali dei due romanzi che meglio potessero aprirgli la strada del grande pubblico internazionale, anche in prospettiva di un preventivabile trasferimento in America. E se quella di Otcajanie (Disperazione) è una traduzione che rivisita soprattutto il tessuto stilistico, snellendolo e ammorbidendolo, per Kamera Obskura, scritto nel 1932, Nabokov opta per un rifacimento integrale dei congegni dell’intreccio, inserendo, oltre ad alcuni capitoli scritti ex novo, un’intera serie di dettagli rivelatori, arguzie e finezze in punta di penna, variando virtuosisticamente la gamma dei modi della narrazione e dando vita a un libro del tutto autonomo che esce a Londra nel 1938 come Laughter in the Dark. Fondatissima quindi la decisione di Adelphi di riproporre, a più cinquant’anni dalla precedente (edita da Mondadori), una nuova versione tratta ancora dal testo inglese, affidata a Franca Pece: Una risata nel buio (pp. 225, euro 20,00).
Passioni incontrollabili, tradimenti, abissi di malvagità, vendetta e morte, nel miglior spirito dei melodrammi della nascente industria cinematografica erano certo un buon viatico per far carriera oltreoceano. Ma il rifacimento non ha affatto l’obiettivo di semplificare o ottimizzare le dinamiche dell’intreccio. Al contrario. Vuole ulteriormente accentuarne e denudarne la convenzionalità, lasciar intendere che tutte le porte che si chiudono o chiudono dentro qualcuno, gli incontri fortuiti per le scale, o all’altro capo d’Europa, tutti gli indizi e indirizzi scoperti e occultati sono solo quinte di cartapesta del gran gioco che è la narrazione e la creazione artistica, e che la ribellione del protagonista alla sua confortevole prigione familiare di altissima borghesia è a tutti gli effetti specchiata nella fuga sugli alberi della scimmietta di un ambulante in un parco di Berlino. Così come l’intero testo è ulteriormente specchiato nella dimensione cinematografica e teatrale, metatestuale e non. Con una sottigliezza, però, e con una sapienza compositiva che nulla tolgono alla fruizione dell’avventura, delle passioni, della tragicità in sé.
Cosa spetti fare al lettore partecipe è già trasparente davanti al più esplicitante e spiazzante degli incipit: «C’era una volta un uomo che si chiamava Albinus, il quale viveva in Germania, a Berlino. Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per un’amante giovane; l’amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore dei modi». Di qui in poi ognuno segua la sua traccia: il testo è una vorticosa caccia al tesoro di rimandi incrociati, allusioni criptate, prefigurazioni dissimulate e scatole che contengono altre scatole.
Già nel momento in cui il protagonista coglie letteralmente dall’oscurità, ossia dal buio della sala cinematografica, l’oggetto della sua passione (la maschera! con la sua lampadina tascabile: e tutto il romanzo sarà alternanza di luce e tenebra) si rende tangibile l’evidenza dei due climax tragici della narrazione: sullo schermo «una ragazza indietreggiava fra mobili rovesciati davanti a un uomo mascherato e armato di pistola» (nel suo caso la maschera sarà la cecità, lo si deduce già dal nome del cinema, Argus) e, ancor prima di entrare, sulla locandina «un uomo con lo sguardo rivolto in alto, verso una finestra in cui era inquadrato un bambino in camicia da notte» (qui, nonostante la camicia da notte, la traduttrice non ha avuto la lungimiranza di risolvere l’ambiguità di «a child» scegliendo bambina»): è la figlia del protagonista, che nella vana speranza di vedere il padre apre la finestra in una notte gelida e si procura la polmonite che le sarà fatale.
Una alla metà, l’altra alla fine del libro (ovviamente sarà il protagonista, non la cattiva, a soccombere), queste due morti incorniciano strati di azioni in sur place, falsi movimenti, rocambolesche vicissitudini, che nulla cambiano in un conflitto reso tremendamente statico da un vortice di consanguineità malata: l’agiatissimo critico d’arte Albinus, colto ma del tutto privo di talento, viene travolto da incontenibile passione per la diciottenne (sedicenne in russo!) sottoproletaria Margot, incarnazione della sensualità istintiva uscita da un quadro di Bernardino Luini, indolente e arrampicatrice sociale, che inganna e sfrutta Albinus, ma comincia a trarre la linfa dell’autentica malvagità solo dalla ricomparsa del suo primo amante, che l’aveva crudelmente traviata, il geniale, cinico e spietato artista puro Axel Rex, ora regista di una farsa tragica (cui va addebitata anche la perdita della vista di Albinus in un incidente provocato dalla gelosia) di beffa e cornificazione ininterrotta.
Stupisce l’inamovibilità di questo triangolo farsesco, che è calato da Nabokov come un giogo, una cappa sulle anime, rinsaldato dall’imperscrutabile ma sincera affinità di sentimento che unisce i due cinismi di Axel e Margot, ma soprattutto dai legami testuali disgiunti che Albinus intrattiene con Rex e con Margot prima che i due ex amanti si incontrino di nuovo. Sembra una delle tantissime esasperazioni ininfluenti per l’intreccio, e invece è il fondamento delle architetture profonde testo-vita sulle quali tutto poggia.
In quanto congegno narrativo articolatissimo e raffinato, ma comunque inscrivibile nelle dinamiche di genere e commerciali (avrà anche una trasposizione cinematografica nel 1969), Una risata nel buio è testo esemplare di una fase della produzione nabokoviana che, in un modo o nell’altro, verte sulla costruzione del bestseller. Sono lasciati temporaneamente da parte gli abissi della metatestualità, le intricatissime narrazioni a cornice e l’ibridazione estrema di tempo e spazio dei romanzi russi più apprezzati dalla critica (Il dono, La difesa di Luzin, Invito a una decapitazione), che riemergeranno nei capolavori inglesi della maturità (Fuoco pallido, Ada o ardore). Vengono rielaborati alcuni motivi ossessivi, tutti, in sostanza, fondati sulla proiezione distorta della realtà sulla psiche propria e altrui.
Torna qui il triangolo, squilibrato per età, portafoglio e moralità, protagonista di Re, donna, fante, il romanzo russo che ha maggiori affinità con Una risata nel buio (da notare il dettaglio dell’invito a pranzo che arriva ad Albinus da parte di quelli che erano i protagonisti dell’altro romanzo, i coniugi Dreyer), o l’autoannientamento attraverso l’uccisione di un finto sosia, che compare in Disperazione. Motivi che troveranno il loro coagulo ideale in Lolita, della quale la giovanissima Margot è premessa non meno dell’ossessione per il rivale occulto che porterà Humbert Humbert a uccidere Quilty.
Se l’intreccio, in ultima analisi, è e resta un gioco, il vero cardine della narrazione in Una risata nel buio sarà il ritmo, che varia continuamente, vibra sulla pagina, poi scorre placido e suadente, poi si fa soffocante. Nei capitoli iniziali si muove a lenti cerchi concentrici, che seguono fedelmente la sfera percettiva, emotiva ed espressiva dei vari personaggi; l’apparente realizzazione del sogno di Albinus genera torpore, saturazione, solarità, resi con sorprendente densità del flusso verbale; le pagine in cui viene descritta la morte della figlia sono un capolavoro di laconismo pittorico; da quel punto c’è una discesa senza freni verso il primo epilogo (l’incidente), con alcuni capitoli che appaiono meno levigati degli altri; poi il muro percettivo, quasi materico, dell’oscurità assoluta, e infine i fuochi d’artificio e gli stilemi pienamente teatrali della sceneggiata con Rex muto e nudo (quasi battute e didascalie). Un discorso a parte riguarda le sequenze ostentatamente filmiche, nelle quali gli oggetti sono srotolati nello spazio dalla telecamera a mezzo di semplici enumerazioni (come nella scena finale), o danno il via a corse in taxi che sono gallerie di stereotipi e sincopature.
L’ultima di queste, che snocciola nella mente del cieco, strada per strada, tutto il percorso verso casa, ci rammenta per antifrasi che fino a quel momento l’azione avrebbe potuto svolgersi in una qualsiasi capitale europea, tale è il grado di astrazione con cui Nabokov rappresenta la sua poco amata Berlino, scorporando singoli frammenti di viale alberato, selciato, facciata, funzionali puramente al testo. E così il rigoroso alternarsi delle stagioni non dà alcun colorito locale, ma solo sfondi pervasivi di pioggia e neve e paesaggi estivi italiani, francesi o svizzeri, su cui si appiccicano etichette toponomastiche di pura fantasia: Solfi, Rouginard, Brigaud (con il secondo, che rappresenta la frastornante pienezza di colore rosso/rosa sempre frapposta fra luce e tenebra, materializzato all’epilogo in una vera etichetta sulla valigia accanto al cadavere).
Tutto congiura a far emergere la vuotezza assoluta degli sforzi con cui i personaggi manipolano altri personaggi, e Rex tutti quanti gli altri, perché tutti, Rex in primis, sono a loro volta manipolati dal dispiegarsi interamente autonomo del testo, che in apparenza simula, ma in realtà bandisce il fato. Certo, va chiamato in causa l’autore, per quanto mai come qui il narciso Nabokov ricorra a un marcato understatement. Resterebbe e resta la poetica del vuoto e del silenzio, certo molto consona all’autore.
C’è però una forza, sottesa al libro intero, che smontando costruisce, frugando tra gli strati della significazione. È l’umorismo: sottile, discreto, ma pervasivo e onnicomprensivo. Ce ne dà un ottimo esempio il gran favolatore Rex, sul quale Nabokov proietta autoironicamente le riflessioni sull’arte che gli sono meno distanti. Partendo da uno zio che «finge» di rubare l’argenteria per divertire i bambini, arriva al «sillogismo hegeliano dello humour. Tesi: lo zio si è travestito da ladro (per divertimento dei bambini); antitesi: era un ladro (per divertimento del lettore); sintesi: si trattava sempre dello Zio (che prende in giro il lettore)».
È la maiuscola la chiave di volta: leggiamo una storia di tradimenti e tragedie, ne smascheriamo compiaciuti l’integrale convenzionalità, ma in realtà nella creazione letteraria c’è una forza superiore a noi e all’autore stesso che genera vera Tragedia; Rex prova ad attuare il suo programma ontologico di caricaturizzazione dell’esistenza, noi lo vediamo attraverso la vetrata dello chalet (con gli occhi del cognato di Albinus che interrompe la farsa) come uno scimmione peloso, eppure la prossima volta che una mosca ci si poserà sul naso, non mancheremo di lanciare un’occhiata oltre la spalla.