È il terzo giorno di guerra. Siamo riusciti a raggiungere telefonicamente Myroslav Slaboshpytskiy, uno dei più importanti cineasti ucraini in attività, che in questo momento si trova a Kyiv, la città in cui è nato nel 1974. Il suo lungometraggio The Tribe, che mette in scena una gang di adolescenti sordomuti, è stato presentato in prima mondiale nel 2014 al festival di Cannes dove ha vinto il Gran premio della Semaine de la critique. Molta parte del suo lavoro è incentrata sulla centrale di Chernobyl, che recentemente è diventata, con sorpresa e sgomento del mondo intero, un teatro di guerra. Uno dei motivi di interesse della zona di esclusione è il fatto di essere divenuta un «santuario biologico». Una storia di vendetta animale sarà al centro del suo prossimo film, The Tiger, attualmente in lavorazione. Lo abbiamo contattato per farci dire in che maniera l’invasione russa sta cambiando la sua vita. E come questa guerra, altamente mediatizzata e combattuta con tutte le armi, comprese quelle del linguaggio e della propaganda, viene vissuta da chi è testimone diretto dell’invasione.

Come hai trascorso la notte del 26 febbraio?

Curiosamente, ho dormito. Dopo due notti insonni, quando si è infine capito che l’assalto alla città di Kyiv sarebbe stato imminente, sono semplicemente andato a letto. Qui molti hanno già vissuto la repressione di Piazza Maidan nel 2014. Per me invece questa è la prima esperienza diretta d’un conflitto. Ho avuto la sensazione che stesse accadendo qualcosa di irreale, che non riesco ancora a capire, come in uno stato di smarrimento.

Dov’eri durante gli eventi di Piazza Maidan, nel 2014?

Quando i Cento Celesti, ovvero i partecipanti alla Rivoluzione della dignità, sono stati fucilati dagli ufficiali e dai mercenari, stavo filmando le ultime scene di The Tribe a 14 km da Kyiv. La prima fase di piazza Maidan è stata pacifica, la seconda invece è stata un bagno di sangue. Ma eravamo ad una certa distanza dagli eventi. Giravano voci sulla presenza di carri russi alla frontiera e con il mio produttore eravamo d’accordo sul tenerci sempre pronti a saltare in macchina e partire con gli hard disk del girato. Maidan mi ha cambiato la vita, ed è stata un’esperienza piuttosto gioiosa, nonostante tutto. Questa volta è diverso. Stamane eravamo a tavola, facevamo colazione, qualcosa di enorme è passato all’improvviso davanti alla finestra. Abbiamo pensato ad un aeroplano. Il news feed del mio computer ha immediatamente riportato l’esplosione di un missile in un blocco di case non lontano da dove abita il mio produttore. Sento rumori di esplosioni in continuazione.

Quando suona l’allarme aereo, vi rifugiate nel metrò?

Molti lo fanno. Io e mia moglie preferiamo i sotterranei del nostro stabile. La scorsa notte le sirene hanno suonato due volte, ma non le abbiamo sentite. Come dicevo, dormivamo profondamente.

Tra le notizie più incredibili c’è quella della presa della centrale nucleare di Chernobyl e molto del tuo lavoro, sia come sceneggiatore che come regista, è dedicato alla catastrofe nucleare del 1986.

Quando ho letto la notizia dei combattimenti intorno alla centrale ho pensato fosse uno scherzo. Non dovrebbe succedere. È un territorio speciale. Al di là del rischio, c’è qualcosa di sacro in quel luogo.

Riesci a lavorare in questa situazione?

In questo periodo lavoro alla scrittura di un progetto chiamato The Tiger prodotto da Darren Aronofsky. Ma in questi ultimi due giorni non sono stato molto produttivo, per essere onesto. Ricordo che, mentre stavo girando The Tribe, nonostante ciò che accadeva a Maiden, tutta la troupe era concentrata sul lavoro. Le riprese andavano piuttosto bene. Facevamo delle inquadrature molto lunghe, così tra un ciak e l’altro c’erano delle pause, e tutti ne approfittavano per seguire le notizie dalla piazza. Quando si è saputo del massacro dei Cento, è stato un colpo, mi sono detto: che cosa sto facendo qui? L’arte sembra un gioco così futile rispetto alla tragedia reale. È una sensazione che ho avuto allora, e che mi impedisce di lavorare ora.

Alcuni registi e artisti dicono di voler prendere le armi e resistere.

Li capisco. Ma non è per me, non sono un soldato. Sono stravolto, ma non a tal punto.

Come stai passando le giornate?

Leggo le notizie ovviamente. E le lettere che mi inviano amici e conoscenti. È incredibile il numero di persone che mi scrive per manifestare solidarietà, talvolta sono persone che ho incontrato per poche ore, in un festival o dopo una proiezione e che mi propongono di ospitarmi. È molto toccante.

È difficile per me rivolgermi a te in russo.

Non devi sentirti in difficoltà. Anche mia moglie viene dal paese dell’aggressore. Ho vissuto sette anni a San Pietroburgo, ho lavorato al Lenfilm. Ovviamente sono amareggiato, ma non ce l’ho con tutti i russi.

Pensi che tornerai in Russia?

Non visito la Federazione russa dal 2013. E per essere onesti l’ultima cosa a cui penso ora è di tornarci. Se per qualche ragione la Russia vorrà riallacciare delle relazioni, si troverà un modo… ma il nostro rapporto con loro è definitivamente cambiato. In epoca sovietica, un giovane con l’ambizione di diventare artista sognava di andare a Mosca o a San Pietroburgo. Ancora all’epoca di Yeltsin, i treni erano pieni di lavoratori stagionali che dall’ovest dell’Ucraina andavano a Mosca. Dopo il 2014, c’è stata una rivoluzione culturale. I giovani d’oggi vanno in un’altra direzione. Parlano meglio inglese che russo. C’è stato un boom di traduzioni della letteratura straniera, sia classica che contemporanea, in ucraino, mentre prima leggevamo solo nelle traduzioni russe. Stessa cosa per il cinema. L’Ucraina ha pensato molto meno alla Russia in questi ultimi anni di quanto la Russia non abbia pensato all’Ucraina.

La sceneggiatura che stai scrivendo è in ucraino?

No, in inglese.

I personaggi di «The Tribe» parlavano la lingua dei segni.

La lingua dei segni ucraina. Come sai, c’è una lingua dei segni francese, una inglese e così via. Alcuni gesti della lingua dei segni russa e ucraina coincidono. C’è senz’altro un accordo tra queste due lingue, ma riguardo alle norme letterarie dell’ucraino in realtà c’è una disputa filologica. Il dialetto di Poltava è considerato il canone della lingua ucraina. Alcuni dicono che suona più russo che polacco, altri invece affermano il contrario.

Quella di Poltava è una bellissima regione, la conosco perché è da lì che viene mia madre. Torniamo per un attimo a quel sentimento di smarrimento con il quale abbiamo cominciato. Viviamo in un momento surreale, accadono cose fino a poco fa inimmaginabili, e l’esposizione mediatica aggiunge un lato spettacolare: esplosioni, atti eroici, video messaggi dei leader. Che cos’è che ti dà il senso della realtà? Quello che vedi fuori o quello che passa sullo schermo?

Domanda fondamentale. Agenzie come «Reuters» pubblicano ogni giorno immagini di guerra spettacolari, che hanno poca realtà per il grande pubblico. Ma questa è una guerra nel cuore dell’Europa – la prima da quanti anni? – e quindi riceve un’attenzione maggiore rispetto agli altri conflitti che ci sono stati e ci sono nel mondo. Detto questo, una cosa è vedere delle immagini sullo schermo, un’altra è viverci dentro. Ho seguito le proteste in Bielorussia e in Kazakhstan, le guerre in Siria e in Libia. È tutto talmente diverso quando si è lontani.