A un checkpoint Vassily sorride al nostro compagno di viaggio e chiede come vanno le cose. Ha gli occhi azzurri chiarissimi e qualche ciocca di capelli biondi che escono dal cappuccio, non riesce ad appoggiarsi bene al finestrino a causa del giubbotto antiproiettile che gli impedisce i movimenti.

«Droga e armi come al solito?», chiede con un sorriso schietto ed espansivo. «Sì, per gli organi non ci siamo ancora attrezzati» gli rispondiamo.

«MA LA SITUAZIONE verso Kherson com’è, ci tornate?». Si raddrizza e fa segno di accostare, come fanno i militari di guardia quando vogliono controllare il bagagliaio delle auto in transito. Si appoggia di nuovo: «Credo che la settimana prossima sarà cruciale, non sono un generale dello stato maggiore ma so ragionare e vedo un nostro attacco a breve».

«Quindi la settimana prossima tutti a Kherson?», lo incalziamo. «Non credo – dice lui sempre cordiale ma più serio – Probabilmente i russi faranno saltare il ponte sul Dnipro, credo che riprenderemo tutta la parte a ovest della città, questo sì, ma Kherson…».

Si interrompe per un attimo e riprende: «Non abbiamo i mezzi dei russi e neanche la stessa quantità di uomini, noi non possiamo affrontare battaglie campali e neanche permetterci di stare trincerati fronte contro fronte». «Sì, ma si dovrà sbloccare in qualche modo questa situazione?».

Vassily chiede se conosciamo Bulgakov, «Il Maestro e Margherita», dice il nostro compagno di viaggio, «Sì, e anche Cuore di Cane e poi…» si interrompe per pensare alla traduzione ma non ricorda il termine e lo dice in russo, «Bilaia Gvardia». «Ah, La Guardia Bianca!».

«Sì, è come in quel romanzo, per i russi la vita dei propri soldati non vale niente, possono mandarne altri duemila, ventimila o duecentomila, è la stessa cosa per loro».

DOPO AVER GUARDATO verso la strada un attimo Vassily riprende la sua analisi che si fa strategica e drammatica: «Credo che tra poco si inizieranno a tenere le posizioni, secondo me durerà almeno altri 6 o 7 mesi». Stupiti per la franchezza con la quale, per la prima volta dall’inizio del conflitto, sentiamo parlare un militare ucraino, ripetiamo un po’ increduli «Sei o sette mesi».

Il nostro interlocutore annuisce con un’espressione che non lascia spazio ad alcuna teatralità. Prima di salutarci ci dice: «La prossima volta cercate almeno di avere qualcosa di illegale nel portabagagli».

Vassily in realtà non è un militare ma un professore. Dal 24 febbraio si è separato dalla famiglia (che adesso è nell’ovest) ed è di stanza su questo fronte. È una persona ragionevole e stona in questo contesto, soprattutto nel ruolo di piantone di un posto di blocco sull’autostrada.

In questa storia tragica dovrebbe spettargli almeno un ruolo da ufficiale in alta uniforme e sigaretta bianca, dovrebbe gestire le relazioni con la stampa o i diplomatici, fare qualcosa che si addice alla sua cultura e alla sua grande umanità. Invece, è in piedi al freddo in mezzo a un gruppo di ragazzini ai quali scivola il kalashnikov dalla spalla e uomini di mezza età abbrutiti.

D’altronde, proprio nella Guardia Bianca Bulgakov raccontava che nella guerra tutto si mischia indistintamente mentre intorno a noi gli uomini non fanno che spargere sangue.

A MYKOLAIV ci dirigiamo verso la sede della Croce rossa. Di fronte alle scale dell’ingresso c’è una fila costante che sembra sempre uguale: per uno che se ne va ne arriva un altro.

Sul marciapiedi è un viavai di volontari che scaricano i furgoni e le macchine sotto lo sguardo di due volontari vestiti di nero che sembrano due membri degli Hell’s Angels. Non ci si aspetterebbe di vedere dei fattorini in bicicletta con lo zaino termico giallo uguale a quello dei servizi di delivery ma con lo stemma della Croce rossa.

HANNO CASCHETTI, vestiti tecnici, alcuni persino le scarpette da ciclismo e mezzi molto belli di marche famose. Evidentemente erano già dei cicloamatori prima del conflitto. «Vanno nelle zone della città dove le auto non possono più andare o dove è difficile arrivare, sono molto veloci», spiega Boris, uno dei volontari.

Racconta che ogni giorno diventa sempre più difficile fornire medicinali, cibo e beni di prima necessità e che in molti tornano a casa senza ciò di cui avevano bisogno. Gli chiediamo se può portarci dove ci sono stati gli ultimi bombardamenti.

«No, sono informazioni riservate», risponde secco. Un senzatetto urla qualcosa di difficilmente comprensibile e Boris sorride: «Fa sempre così, la notte io sono a un posto di blocco vicino al ponte, sono stato nella polizia per un po’ e ora faccio sono volontario, quel tipo viene e ci urla contro, qualcuno deve dargli da mangiare altrimenti non se ne va».

SI AVVICINA UN RAGAZZO che fuma nervosamente, si presenta come fotografo e videomaker e racconta che sua moglie e sua figlia sono in Polonia. Lui ogni tanto dà una mano con i pacchi alla Croce rossa ma non è un lavoro. Non lo pagano, sottolinea. Dopo essersi guardato intorno si offre di accompagnarci nei luoghi degli attacchi come se fosse la cosa più losca del mondo.

È difficile dire quanto fosse una recita e quanto sia Boris sia quel ragazzo credono che sia un’informazione riservata il luogo di un bombardamento già avvenuto e fotografato dai reporter delle agenzie internazionali.

Forse nel secondo caso i soldi sono sempre meno e la prospettiva di guadagnare qualcosa stimola la fantasia. Mentre stavamo per dirgli di andare insieme è tornato Boris con il cellulare per indicarci il luogo di un deposito di bus bombardato di recente.

A sera, quasi in ritardo per il coprifuoco, un militare all’ultimo checkpoint prima del ponte che collega Mykolaiv all’ovest ci ha letteralmente messo in macchina una donna che cercava un passaggio nella nostra direzione. Vinto l’imbarazzo iniziale, Natalia ci ha raccontato la sua storia.

Ieri mattina aveva trovato un passaggio dal suo paesino nei pressi di Odessa ed era arrivata a Mykolaiv per recarsi presso la caserma della 79° brigata aerea bombardata una settimana fa. Voleva notizie del marito che era alloggiato lì ed era presente durante l’attacco missilistico.

NON LE HANNO DETTO niente. «Possibile che ci vogliano sei giorni per trovare un corpo», ha scritto sul traduttore del suo smartphone visto che non riuscivamo a capirci. In macchina è calato il gelo e dopo poco, come se fosse lei a dover consolare noi, ha aggiunto: «Mi hanno detto che è anche possibile che lo trovino vivo».