Va in scena per la quarta volta al Teatro alla Scala di Milano il Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi nell’allestimento del 2010 di Federico Tiezzi (regia), Pier Paolo Bisleri (scene) e Giovanna Buzzi (costumi). Una produzione che, ora come allora, non genera grandi entusiasmi, illustrando la vicenda senza grandi idee, con trovate kitsch (gli alberi che scendono dall’alto) e déjà-vu (lo specchio che scende nel finale). L’aspetto attuale dell’opera, si sa, è il risultato di due cantieri aperti da Verdi nel 1857 e nel 1881. Nei 24 anni trascorsi fra le due versioni, mentre Wagner teorizzava e praticava l’«opera come dramma» intesa come continuum scenico non più diviso in strutture modulari e iterative, Verdi, che aveva portato quelle strutture alla massima compiutezza, esplorava il genere del grand opéra (con opere come Don Carlos e Aida), raggiungendo traguardi simili.

La versione definitiva del Boccanegra è un palinsesto dove la vecchia e la nuova maniera verdiana si sovrappongono. I direttori d’orchestra devono perciò essere capaci allo stesso tempo di assecondare ritmi marziali e pezzi di bravura e di valorizzare ricercatezze timbrico-armoniche. Myung-Whun Chung, che nel 2014 ha vinto il premio Abbiati come miglior direttore d’orchestra per il suo Boccanegra alla Fenice di Venezia, fa dialogare le due anime dell’opera con equilibrio stupefacente.

Il cesello dei colori, delle dinamiche e dei tempi è sublime sia nei momenti estatici (il preludio all’aria di Amelia, la contemplazione senile del mare di Simone), sia in quelli eroici (le arie di Gabriele Adorno), sia in quelli di rievocazione storica (il prologo, le scene del consiglio, della congiura, del dialogo finale tra Fiesco e Simone, della morte di quest’ultimo).

L’incontro del vecchio baritono Leo Nucci (Simone) con il giovane basso Dmitry Beloselskiy (Fiesco) riserva delle sorprese: la voce un po’ sbiadita ma ancora potente del primo sorregge il dramma grazie a una tecnica inossidabile e a una presenza attoriale sempre intensa, coadiuvata dalla voce corposa e cangiante del secondo, ancora un po’ spaesato scenicamente. Struggente l’interpretazione del soprano Krassimira Stoyanova, dalla voce sfavillante nel registro acuto e consistente in quello medio-grave e dal gesto energico ma misurato. Potente come sempre il tenore Fabio Sartori (Adorno). Un po’ sfocato il basso Dalibor Janis (Paolo).