Mentre anche oggi il Myanmar è segnato da una protesta diffusa, il bilancio dell’ennesima domenica di sangue con almeno una quarantina di vittime (40 a Yangon e 20 nel Paese secondo fonti raccolte da il manifesto) hanno fatto balzare il bilancio delle vittime a oltre 180.

SECONDO MYANMAR NOW, uno dei tanti giornali birmani che continua a dare notizie, nell’ex capitale i morti di domenica sarebbero stati addirittura 59. Un bilancio pesantissimo – cui oggi si sarebbero aggiunte un’altra quindicina di vittime – mentre la giunta ha deciso la legge marziale su due township di Yangon (Hlaing Thayar e Shwepyithar) cui ieri ne sono state aggiunte altre 4 sempre nell’ex capitale (North Dagon, North Okkalapa, South Dagon e Dagon Seikkan) e altre 5 a Mandalay (Aung Myay Tharzan, Chan Aye Tharzan, Chan Mya Thazi, Mahar Aung Myay e Pyi Gyi Takhoon).

«Cosa si significhi non si capisce – dice al telefono la fonte che le enumera – poiché non sono state annunciate misure particolari e già i militari fanno quel che vogliono… Forse farà differenza per arresti e processi». Si tratta magari anche di un modo per rispondere agli atti violenti – incendi e vandalismi – che hanno colpito fabbriche tessili e proprietà cinesi a Yangon, cosa che ha fatto reagire rabbiosamente Pechino che ha chiesto alla giunta di proteggere i suoi beni. Ma la vicenda, a sua volta, ha rimesso la Rpc nel mirino del Movimento di disobbedienza che le rimprovera di pensare alle fabbriche anziché ai morti. Uno dei grovigli che si attorcigliano attorno alle speranze diplomatiche: su tutte quella che l’Asean, l’associazione del Sudest asiatico, potrebbe mettere in campo cercando una mediazione che «salvi la faccia» ai generali. Soluzione che viene indicata con forza anche dal Vaticano, con un messaggio del segretario di Stato Pietro Parolin affidato al capo della Conferenza episcopale birmana e asiatica cardinal Bo: «Questa crisi non sarà risolta dal sangue – scrivono i presuli – Smettete di uccidere. Abbandonate il sentiero delle atrocità… che tutti gli innocenti siano rilasciati».

MA L’INVITO DI PAROLIN sembra andar oltre perché, scriveva ieri l’agenzia Fides, «il messaggio giunto dalla Santa Sede incoraggia la Chiesa a impegnarsi nel processo di pace, dicono i Vescovi birmani». Se una vera mediazione vaticana appare improbabile è vero però che i cattolici sono schierati: cosi tanto che la Banca centrale birmana ha aperto un’inchiesta sui flussi di denaro della Cartitas. Non è sola: sotto tiro i conti di Oxfam, Ifes e, soprattutto, di Open Society per cui sarebbero stati spiccati anche mandati di cattura.

Il paradosso del golpe birmano ritorna dunque al tentativo di fare le cose «secondo la legge», come se un governo che si regge sulle cannonate potesse avere una base legale. Cosi non è chiaro se sia vero che i giudici che indagano su Aung San Suu Kyi abbiamo rinviato l’udienza in agenda ieri per via dei blackout della Rete, come hanno detto, o perché ogni volta che la Lady riappare il Movimento prende nuova linfa.

UNA LINFA CHE SCORRE anche nelle periferie dove i gruppi armati Kachin, Karen, Shan non intendono cedere al governo del generalissimo Min Aung Hlaing. Se già la giunta non riesce a creare amministrazioni fantoccio nelle aree sotto il suo controllo, nelle zone dove ci sono eserciti “ostili” la cosa è ancora più difficile. Un fronte aperto su quel lato (già ci sono stati scontri armati con vittime tra eserciti regionali e Tatmadaw) brucia.

CI SONO INTANTO anche novità sul fronte delle cartucce italiane ritrovate in due località birmane e prodotte dalle Cheddite di Livorno che ha smentito di averle mai vendute al Myanmar. Un gruppo che riunisce Rete Disarmo, Amnesty Italia e l’associazione Italia-Birmania sta collaborando per scambiarsi informazioni per far luce sul caso mentre sulla vicenda un’interrogazione di Erasmo Palazzotto (Leu) chiede al ministro degli Esteri – considerato che «la pur importante legge 185/90 non è bastata a regolamentare e limitare la diffusione incontrollata delle armi o quella ancor più incontrollabile delle munizioni» – se «non intenda avviare una verifica completa e approfondita al fine di chiarire la base normativa e le procedure con le quali siano stati autorizzati all’esportazione i lotti relativi alle cartucce ritrovate in Myanmar» e che «iniziative intenda assumere affinché tutte le esportazioni di armi e munizioni siano sottoposte alle procedure previste dalla legge senza distinzioni tra armi comuni e militari».

Un’iniziativa che trova probabilmente d’accordo i 5stelle, che per primi avevano sollevato il problema in Senato. Le cartucce insanguinate del Myanmar (se armate a pallettoni potrebbero anche essere le responsabili degli omicidi mirati che spaccano la testa ai dimostranti) avrebbero almeno il merito di far ripensare la legge sul traffico d’armi – anche in sede Ue – tra le cui maglie si può infilare senza difficoltà il pesciolino delle cartucce da caccia.