Il quarto giorno di proteste di piazza in Myanmar preannunci quello di oggi, il quinto, con un movimento esteso oltre ogni aspettativa nel tempo e nello spazio in ogni angolo del Paese.

Ma c’è anche un primo tragico bilancio. Una donna sarebbe stata uccisa da un proiettile che l’ha colpita alla testa mentre un altro manifestante ha preso il colpo in pieno petto e versa in gravi condizioni. Sono tra le sette persone colpite da proiettili (a quanto pare di metallo) sparati ad altezza d’uomo. Sparati per uccidere. Per ora la notizia non è stata confermata.

Succede a Naypyidaw, la capitale politica voluta anni fa proprio dai generali, uno degli epicentri della protesta che con Yangon e Mandalay sono sotto i riflettori della cronaca di un movimento che comincia a spaventare i golpisti del 1 febbraio. Che hanno affrontato i raduni di oggi (forse un po’ meno numerosi rispetto a ieri ma forse più diffusi in periferia) mandando avanti la polizia, spalleggiata da un esercito in stato di allerta. Idranti, lacrimogeni, spari in aria per disperdere la folla ma poi qualche agente più solerte abbassa l’arma e tira sulla gente.

È un episodio isolato ma gravido di nubi e che si è comunque accompagnato a pestaggi e arresti di decine e decine di manifestanti tra cui personaggi pubblici che ancora non erano in manette: per esempio U Ye Lwin sindaco di Mandalay, seconda città del Paese, arrestato – si dice – per aver scritto sui social parole indigeste sul golpe mentre molti dipartimenti del comune chiudevano i battenti per consentire ai dipendenti di partecipare alla protesta.

Una protesta così diffusa che ha coinvolto anche le forze di polizia: la più nota è la foto di un agente sul tetto di una macchina che solidarizza ma dal Myanmar raccontano anche di intere pattuglie schieratesi coi dimostranti. Episodi rari e numericamente poco importanti ma significativi.
È attraverso i circuiti Vpn che riusciamo a comunicare con il Myanmar mentre Internet va a singhiozzo. Ed è in una di queste conversazioni che ci confermano la prima uccisione dopo una ridda di voci durante la giornata di più vittime della brutalità poliziesca.

Tutto sommato però la giornata si chiude con un bilancio, dicono i testimoni, più positivo del previsto dopo la decisione dell’altro sul giro di vite.

Intanto continua la pressione della comunità internazionale e, secondo fonti locali, agli americani sarebbe stato opposto un rifiuto alla richiesta di vedere Aung San Suu Kyi che dovrebbe apparire in tribunale il prossimo 15 febbraio. E se per gli americani è l’ennesimo sgarbo, c’è chi pensa che anche i cinesi, che alla fine hanno attenuato all’Onu la loro opposizione alla condanna del golpe, non siano troppo contenti di come vanno le cose.

Frastuono che ha già fatto lasciare il Paese ad alcuni imprenditori tra cui persino un’azienda di Singapore che aveva accordi con un conglomerato in mano ai militari. Brutto segno per i salvatori della patria e i difensori dello sviluppo.