A dispetto di quanto ci si poteva aspettare dall’Asean, associazione regionale del Sudest che ha fatto della «non ingerenza» tra membri uno dei suoi mantra, il summit di Giacarta che aveva ieri al centro il Myanmar non è stato un insuccesso.

Il comunicato finale mette il Paese all’ultimo punto di una discussione su Covid, economia e relazioni con Usa e Cina ma, nonostante il cauto politichese della dichiarazione finale, i «cinque punti» su cui si è raggiunto il consenso – quindi con l’approvazione formale del Myanmar – sono molto chiari: 1) Cessazione immediata della violenza e massima moderazione da tutte le parti coinvolte; 2) Inizio di un dialogo costruttivo tra le parti per cercare una soluzione pacifica; 3) Un inviato speciale Asean medierà il processo di dialogo; 4) L’Asean fornirà assistenza umanitaria 5) L’inviato speciale e la delegazione visiteranno il Myanmar per incontrarsi con tutte le parti interessate.

INIZIATO SOTTO NON OTTIMI auspici e incorniciato da manifestazioni in Myanmar, nella stessa Giacarta e altrove (ieri mattina a Roma per esempio, dove ha manifestato l’esigua ma combattiva comunità birmana italiana), sul summit erano puntati gli occhi di tutti: della Cina – da sempre fautrice di una soluzione Asean – della Ue e degli Usa, che hanno appena messo nella lista nera altre due aziende di Stato (Myanmar Timber Enterprise e Myanmar Pearl Enterprise).
Ma soprattutto gli occhi del Nug, il governo di unità nazionale appena nato e che rappresenta il parlamento eletto in novembre (ed esautorato dal golpe del 1 febbraio) e molte delle autonomie regionali coi rispettivi eserciti: avrebbe voluto essere invitato a Giacarta visto che ammettervi solo il capo della giunta sembrava significare un suo riconoscimento indiretto.

Ma a quanto pare nessuno si è rivolto al generale Min Aung Hlaing come vorrebbe l’etichetta per capi di Stato o di governo. L’Asean ha tenuto le distanze. Quanto al generalissimo, si è presentato in abiti civili e non con la solita casacca verde militare. E, a quanto sembra, senza alzare la voce, segno che il summit non lo lasciava indifferente anche se il generale sa che l’Asean è divisa.

I REGIMI AUTORITARI (Laos, Vietnam, Cambogia) sono contro le sanzioni mentre le democrazie (più o meno autoritarie) sono le meno neutrali (Indonesia, Singapore, Malaysia). Più due casi a parte: Manila, con un ministro degli Esteri molto duro a parole ma con un presidente – il Trump asiatico Rodrigo Duterte – che ha snobbato il summit. E Bangkok, con un premier – Prayut – che è un altro militare in abiti civili. Ha preferito stare a casa per non compromettere le relazioni col vicino in divisa ma di cui teme un’ondata di sfollati alle sue frontiere (sarebbero già 250mila le persone in fuga secondo l’Onu). Abbastanza comunque per non sottovalutare il summit.

IL COMUNICATO RIBADISCE due concetti: fine delle violenze e dialogo tra le parti, dunque una sorta di riconoscimento politico del Nug. Infine la liberazione dei detenuti politici è stata ribadita dai partecipanti a riunione finita. E mentre il presidente indonesiano Joko Widodo, l’uomo che il summit ha organizzato, ricordava che «la violenza deve essere fermata e devono essere ripristinate democrazia, stabilità e pace», il premier di Singapore Lee Hsien Loong, invitava i militari a rilasciare il presidente Win Myint e la Nobel Suu Kyi, entrambi ai domiciliari.

Si apre dunque una nuova fase i cui effetti si vedranno solo se Tatmadaw, l’esercito birmano, farà un passo indietro. Una scommessa, visto che in meno di tre mesi ha già ucciso 748 persone e oltre 3mila sono in carcere e i cui ufficiali, segnalava ieri il magazine Irrawaddy che ha potuto leggere dei memo riservati, hanno ricevuto l’ordine di spazzare via in ogni modo chi protesta, spiegando ai soldati che tutto quel che sentono del golpe sono menzogne. Poi bisognerà capire se l’inviato Asean avrà davvero mano libera o sarà una foglia di fico e se potrà essere accompagnato anche dall’inviata dell’Onu che finora non ha potuto entrare nel Paese. Se una nota a margine si può segnalare, riguarda la tempistica di questa appena avviata mediazione: tardiva e dopo una serie di passi falsi che ne hanno ritardato la partenza. Le cose sono andate molto avanti, forse troppo. Ma la speranza che funzioni è per ora uno dei pochi cavalli su cui puntare.