Il conflitto nell’economia collaborativa e della condivisione («sharing economy») non è riducibile allo scontro tra liberalizzazione e corporativismo come nel caso Uber-tassisti in Francia, o in Italia. Negli Stati Uniti, dove questa economia ha raggiunto dimensioni considerevoli dal punto di vista occupazionale e finanziario (Uber ha una dimensione di borsa paragonabile a Facebook) si moltiplicano le reazioni contro lo sfruttamento del lavoro. Le inchieste del Washington Post o del New York Times, la sentenza della Corte federale di San Francisco che ha chiarito che i freelance [Independent contractors] che fanno i tassisti per Uber sono dipendenti di fatto e non «auto-imprenditori». Le dichiarazioni di Hillary Clinton, candidata democratica alla presidenza Usa, contro Uber e a favore dei diritti degli autisti freelance, attestano le dimensioni del conflitto sui diritti per il nuovo lavoro di piattaforma nell’economia della condivisione.

La «sharing economy» è un modo di produzione che non assomiglia al capitalismo classico, ma a qualcosa di peggio che sta cambiando e permette anche di configurare un’alternativa. Nel dibattito europeo e statunitense è stata definita da Trebor Scholz«Platform Cooperativism». Nell’omonimo libro edito dalla Rosa Luxemburg Stiftung la «cooperazione di piattaforma» corrisponde alla riscoperta del mutualismo e dell’economia cooperativa nel XXI secolo.
Il fenomeno va dagli Stati Uniti dove la Freelancers Union ha raggiunto 220 mila soci alla Gran Bretagna dove ci sono 200 mila persone che lavorano in 400 cooperative usando le tecnologie della condivisione. In Spagna una cooperativa come Mondragon occupa più di 74 mila persone.

Le pratiche dell’auto-organizzazione e del mutualismo 2.0 rappresentano il futuro e un’alternativa alla sharing economy, « il reaganismo con altri mezzi» (Scholz): l’uso capitalistico che l’individuo fa della casa o della macchina, della forza-lavoro just-in-time per eseguire micro-lavori creativi, esecutivi, dell’intrattenimento. La «cooperazione di piattaforma» sta sviluppando proprie istituzioni e strumenti come la «class action» per rivendicare diritti individuali e sociali nelle città, come nei tribunali.
Realtà pressoché sconosciute in Italia, ancora concentrata sull’immagine ingenua della «sharing economy» come un’economia dei servizi on-demand via smartphone.