Quest’anno la Berlinale dedica alla Technicolor, nella ricorrenza del centenario di questa gloriosa istituzione nata a Boston alla MIT, nel 1915, una retrospettiva intitolata per l’appunto «Glorious Technicolor» con titoli che vanno dalle sperimentazioni degli anni Venti fino al passaggio in massa del cinema americano al colore negli anni Cinquanta.
La rassegna asseconda in apparenza l’aspettativa di una massa di film ottimisti e spericolati nell’uso del colore: dai musical stupefacenti di Minnelli come Yolanda and the Thief, a Il mago di Oz, Biancaneve, Via col vento, Singin’ in the Rain, Gli uomini preferiscono le bionde, ma anche western come She Wore a Yellow Ribbon o Naked Spur, ovvero tutti quei film che senza i loro colori non sarebbero la stessa cosa. Ma in realta la rassegna ci rivela anche un lapsus hollywoodiano, che a parlare di colore si finisce per parlare anche di quello della pelle, della razza, della color line.

Quando il Technicolor si girava ancora con due pellicole sovrapposte, una rossa e l’altra verde, nel 1922, viene realizzato un sorprendente Toll of the Sea (di Chester Franklin) ovvero una Butterfly cinese interpretata dalla star cino-americana Anna Ma Wong. Scrittto con la solita intelligenza da Frances Marion, la star della sceneggiatura americana degli anni Venti, il film racconta a colori un melodramma che si svolge tra giardini fioriti, tuniche di seta dai mille colori e onde del mare che portano alla ragazza l’americano che sta per affogare ma glielo portano via per riportarlo sposato con un’amica d’infanzia WASP. E qui sta la trovata geniale della Marion: l’iniziativa nel racconto è tutta in mano alle donne, quindi la bionda americana prima convince il marito a raccontare a Lotus Blossom la verità e poi lei stessa vuole conoscerla meglio, al punto che la moglie cinese le affida il suo bambino biondo e dagli occhi azzurri e si annega nel mare del destino. Un melò di sacrificio per modo di dire, se si guarda a chi controlla lo schermo e il racconto. D’altro canto la Wong era un’attrice indipendente che si creò a Hollywood un suo spazio, combattendo per avere ruoli dignitosi e non offensivi della sua razza fino a comparire affascinante e cinica come la rivale bionda, Marlene, in Shanghai Express.

Toll of the Sea non nasconde la matrice razzista della sua cultura, ma almeno conferisce a Lotus Blossom nobiltà d’animo e dignità (per esempio al primo incontro con la coppia americana dice che il bambino è figlio dei vicini americani, per non mettere in imbarazzo il marito o forzare la situazione). Non bisogna dimenticare che mentre gli europei, italiani inclusi, avevano delle limitazioni nell’emigrare negli Stati uniti ma mantennero sempre l’accesso alla cittadinanza, tutte le razze orientali avevano divieto di entrare nel paese, se non come schiavi, come i cinesi comprati e venduti a migliaia per costruire le ferrovie. Che questo film con una star cinese sia stato il primo film in Technicolor stupisce quindi non poco.

Curiosamente il periodo glorioso della sperimentazione si chiude con un altro film che tratta della color line, Redskin (Victor Schertzinger, 1929). Come dice il titolo si tratta di un film che ha per protagonista un pellerosa, il Navajo Piede Alato, interpretato dall’americanissimo Richard Dix (senza cerone rosso, però) costretto a frequentare la scuola dei bianchi, e qui frustato perche si rifiuta di fare il saluto alla bandiera americana e di abbandonare il suo abbigliamento tradizionale per il «caro blue jean» della divisa.

Nella scuola il ragazzo si innamora di una fanciulla della tribu dei Pueblo, rivale della sua, ma finiti gli studi viene accettato a una scuola prestigiosa per via del suo piede veloce (riferimento questo a una storia vera). Ma qui si scontra nuovamente col razzismo americano e decide di tornare dalla sua gente, che a sua volta rifiuta la cultura moderna di cui è portatore. Cacciato dai suoi e impossibilitato a recuperare la sua Fiore del Grano, l’eroe si perde tra le spettacoalri cattedrali rocciose dell’Arizona fino a scoprire il petrolio. Con l’aiuto sia dell’educatore che lo aveva frustato che della maestrina bianca che indossava però una giacca ricavata da una coperta indiana, i due si riuniscono e portano la tolleranza ai loro popoli, con la benedizione degli americani, dividendo i profitti del petrolio tra le due tribù, cui l’eroe pellerossa trasmette la sua concessione. Come Toll of the Sea anche questo film non riesce comunque a conciliare un’ideologia da genocidio con la millantata tolleranza. Certo l’istruttore dice ai due ragazzini pellerossa che litigano «qui siamo tutti uguali, Navajo e Pueblo.»

Tra le grandi ripoposte della retrospettiva il mitico Leave Her to Heaven (John Stahl, 1945) con una Gene Tierney di una cattiveria che fa sembrare la protagonista Gone Girl/Amore bugiardo una suorina. Il film mostra come non necessariamente Hollwood costruisse film spettacolari, come quelli in Technicolor, su progetti sicuri. Questo infatti è un noir a colori, ma anche un melodramma fiammeggiante – una contraddizione di termini che si giustifica in un film in cui l’eroina riesce a uccidere il cognato poliomelitico e il bambino che ha in grembo per non perder il suo rapporto esclusivo con il marito. Ambientato tra boschi e deserti che permettono di sfruttare al meglio il colore, negli interni gioca con le ombre del noir in bianco e nero tradizionale, sfruttando il colore per trasformare le labbra rosse di Gene Tierney e i suoi incredibili occhi azzurri in un elemento di decor, un’attrazione fatale per lo sguardo, ma anche un volto che si trasforma nell’icona di una medusa capace di pietrificare chiunque la fissi troppo a lungo.