A mali estremi, estremi rimedi: sembra essere un po’ questa la filosofia degli entusiasti della Geoengineering, ovvero «Geo-ingegneria climatica», una serie di tecniche che puntano a ridurre il surriscaldamento terrestre attraverso la deliberata modificazione di parametri atmosferici.

L’ACCORDO SUL CLIMA raggiunto nella conferenza di Parigi nel dicembre 2015 e sottoscritto dai 196 paesi partecipanti ha stabilito che l’aumento della temperatura deve essere mantenuto al di sotto di 1.5 gradi al fine di scongiurare impatti catastrofici. A questo scopo le emissioni di anidride carbonica dovranno diminuire a partire dal 2020. Obiettivo per nulla scontato, anzi. Sul tema se e quando la fatidica soglia verrà raggiunta ci sono previsioni diverse. Per esempio la Carbon Brief, un sito inglese che si occupa di politiche energetiche ed ambientali, ha recentemente calcolato che fra 4 anni e pochi mesi vi sarà nell’atmosfera una quantità di anidride carbonica tale da rendere impossibile contenere l’aumento di temperatura secondo quanto indicato da Parigi.

MA AL DI LÀ DI QUESTA o quella previsione, conviviamo già con fenomeni climatici inquietanti, siamo in affanno, e in base a questa urgenza si arrivano a prendere in considerazione strategie azzardate non esenti da rischi. Meglio mantenere alta l’attenzione.

SULLA COSIDDETTA «GEO-INGEGNERIA climatica» si discute da alcuni anni; le tecniche che vi afferiscono possono essere divise in due categorie: quelle che mirano a sottrarre anidride carbonica all’atmosfera e quelle che si propongono di modificare il potere riflettente del pianeta. I lavori sono sostanzialmente allo stadio teorico e di ricerca: per esempio nel 2013 venne pubblicato sul settimanale Nature lo studio di ricercatori tedeschi del Alfred Wegener Institut per le Ricerche polari e marine che dimostrava come le alghe fossero in grado di sottrarre anidride carbonica all’atmosfera, catturandola tramite la fotosintesi, e di trascinarla verso i fondali al momento della loro morte; da qui scaturiva la proposta di fertilizzare gli oceani per favorire la crescita del fitoplancton. Non c’è bisogno di essere biologi esperti per avere timore delle possibili alterazioni degli equilibri ecologici conseguenti ad un’iniziativa del genere.

PROPRIO NEL 2018 PARTE uno studio volto a testare invece la possibilità di ricacciare indietro i raggi solari prima che abbiano il tempo di riscaldare il pianeta. Sulla base di cosa? Il 1816 è conosciuto come «l’anno senza estate» in quanto un abbassamento globale della temperatura causò freddo e maltempo fuori stagione tali da provocare fame e carestie. La causa fu individuata nella violenta eruzione del vulcano indonesiano Tambora, che immise nell’atmosfera grandissime quantità di ceneri vulcaniche. La temperatura si abbassò perché i raggi solari non riuscivano ad attraversare l’atmosfera. Un fenomeno simile si verificò nel 1991 con la tremenda eruzione del vulcano Pinatubo, nelle Filippine: anche in quel caso ceneri e solfuri lanciati nell’atmosfera terrestre resero più freddo il pianeta di 0,5 gradi. Quello che si stanno apprestando a fare degli scienziati di Harward, capeggiati dall’ingegnere David Keith, fervente sostenitore della Geoengineering, è spruzzare nell’atmosfera particelle come diossido di zolfo, alluminio e carbonato di calcio per valutare i rischi e i benefici del loro effetto schermante; l’esperimento verrà condotto da un pallone aerostatico posto ad alta quota sul deserto dell’Arizona, ed avrà una durata di almeno 18 mesi, anche se la richiesta di Keith è di portarla avanti per almeno 3 anni.

LE TECNICHE DI GEOEGINEERING suscitano ancora molte perplessità nella comunità scientifica: la loro efficacia nella riduzione delle temperature non è ancora stata provata e la loro applicazione su larga scala solleva non poche preoccupazioni su conseguenze che sono largamente ancora non prevedibili, in particolare sulla biodiversità e sugli equilibri ecosistemici. Lo scetticismo proviene, fra gli altri, da esperti delle Nazioni Unite (Congresso sulla biodiversità del 2018), dall’Istituto Finlandese di Metereologia (Report 2016), da un comitato internazionale di scienziati che ha prodotto una relazione sponsorizzata dalla National Academy of Sciences, dalla U.S. intelligence community, dalla NASA, dalla National Oceanic and Atmospheric Administration, e dal Dipartimento delle energie sempre degli Stati Uniti: tutti concordi nel ritenere che sostanzialmente il gioco non vale la candela; sia in termini economici che, sopratutto, di rischio. Al Gore, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti d’America da tempo paladino dell’impegno per il clima, senza mezzi termini ha definito «folle» l’utilizzo di queste tecniche.

SU QUESTO GENERE DI SPERIMENTAZIONI aleggiano sospetti anche di tipo «complottista». Se davvero un giorno si dovesse ricorrere allo spruzzare periodicamente particelle nell’atmosfera, sarebbero aerei militari a farlo. Questo, come il fatto che gli Stati Uniti non siano nuovi all’utilizzo delle modificazioni del tempo meteorologico come arma di guerra, vedi per esempio l’operazione Popey durante la Guerra in Vietnam, avvalla l’ipotesi che in realtà gli studi in atto siano a scopi bellici.

ANDANDO A VEDERE LE FONTI di finanziamento di tali progetti e le organizzazioni coinvolte, fuor di paranoia, qualche dubbio sorge: una interessante ricerca su questi aspetti è stata fatta dal giornalista investigativo ed attivista Derrik Broke, che in un articolo scritto per il sito ActivePost.com elenca dettagliatamente le fondazioni e i soggetti che hanno investito miliardi di dollari nella sperimentazione di David Keith con relativi scheletri negli armadi, e fra le altre cose fa notare che il presidente di una di queste fondazioni, Paul J.Joskow, è attualmente un consulente per l’Epa, l’Agenzia di Protezione dell’Ambiente Statunitense. Risulta quantomeno curioso che un consulente del governo di Donald Trump, feroce negazionista dei cambiamenti climatici, sia uno dei principali finanziatori di un progetto che punta al contenimento del surriscaldamento terrestre.