Lo scorso ottobre è scomparso Ovidio Jacorossi (nato nel 1934), imprenditore di lungo corso e appassionato collezionista d’arte, nonché fondatore a Roma del Musja. Quest’ultimo è un museo privato ma aperto al pubblico che Jacorossi ha destinato a ospitare la sua ampia raccolta di opere del Novecento e più in generale a promuovere l’arte contemporanea. Attivo dal 2017 con il nome di Musia come laboratorio multifunzionale per la cultura, il Musja è stato inaugurato nella sua nuova veste appena qualche settimana prima della morte di Jacorossi con una mostra curata da Danilo Eccher dal titolo The Dark Side – Chi ha paura del buio?, che proseguirà fino a domenica 1 marzo.
L’esposizione è stata presentata come primo appuntamento di una trilogia che, trattando altri generi di «paure» (della solitudine e del tempo), dovrebbe completarsi nell’arco di tre anni presso lo stesso museo. Inoltre, a margine, il Musja ha previsto una serie di conferenze coordinate da Federico Vercellone; e con cadenza mensile, delle performance del gruppo Differenziale Femminile che si svolgeranno in mezzo ai visitatori.
Il «buio» a cui fa rifermento il titolo è in realtà una dimensione metaforica, non necessariamente fisica; è il tema di cui vengono proposte differenti declinazioni che possono in effetti essere tenebrose come pure, viceversa, sfolgoranti. Due condizioni antitetiche che, se portate all’estremo, determinano entrambe l’offuscamento della vista. Questa ambivalenza è il fulcro su cui è impostata The Dark Side. Eccher convoca Hegel, Socrate e Giordano Bruno per affermare che la «verità è sempre ibrida, ogni processo logico si evolve per negazioni come l’errore è un passo necessario al progresso». Perciò parlare del «“Lato Oscuro” significa affrontare la verità duplice, bifronte, complessa e ambigua; significa riconoscere l’importanza degli opposti, dei contrasti, degli inciampi, significa accettare le presenze scomode, gli intrusi, le ombre della diversità».
Un argomento decisamente vasto e ambizioso, dunque, che si presta a innumerevoli letture. Ciò è a un tempo ragione, attrattiva e limite della rassegna, la quale punta soprattutto e con successo sulla suggestione, ma risulta alquanto arbitraria nella concezione – come del resto normalmente accade con le mostre tematiche quando rinunciano a ogni intento storiografico. D’altronde, Eccher dichiara di essersi ispirato alle esperienze condotte negli anni sessanta da Pierre Restany, Norman Rosenthal, Harald Szeemann, che miravano in modo particolare al coinvolgimento totale dello spettatore. E seppure non può ritornare a quelle formule espositive, perché anacronistiche, il curatore cerca di recuperarne la carica di seduzione senza scadere nel sensazionalismo.
«È in questo modo, in questo procedere, che si devono consultare le mappe dell’arte e la bussola della poesia, incanto ed emozione abitano il buio, l’arte non ama l’eccesso di chiarore solare, l’ombra dell’ambiguità rimane il suo ambiente, è al tramonto che si accende la poesia, è nelle nebbie mattutine che si assopiscono le muse. L’arte non può rinunciare al suo mondo notturno, all’inquietudine di un’oscurità ignota, al desiderio di attraversare il buio, al piacere di vivere la notte, all’utopia di un pensiero oltre, diverso, inaspettato».
Partendo da queste premesse, The Dark Side si articola su vari registri, dal grottesco all’onirico, dal sadico all’esoterico; ed è senza dubbio interessante come riesca ad accostare in una narrazione d’inquietudine tredici artisti tra loro eterogenei per storia, attitudine e modalità espressive. Eccher, infatti, ha riunito per l’occasione lavori di Christian Boltanski, Monica Bonvicini, James Lee Byars, Monster Chetwynd, Gianni Dessì, Gino De Dominicis, Flavio Favelli, Sheela Gowda, Robert Longo, Hermann Nitsch, Tony Oursler, Gregor Schneider, Chiharu Shiota.
La maggior parte delle opere sono state pensate e realizzate per la mostra, mentre alcune appartengono alla collezione Jacorossi e altre sono prestiti. Molte sono installazioni, di cui qualcuna tende a un sincretismo di effetti o a una combinazione di stimoli sensoriali. L’allestimento sfrutta il più delle volte con sagacia gli spazi per loro natura angusti e vetusti del museo, tracciando una claustrofobica discesa agli inferi di innegabile impatto emotivo: dagli angoscianti volti di Oursler ai veli-fantasma di Boltanski, o all’abbacinante e opprimente lampadario barocco di Favelli, fino alla sedia spiritica di Byars. O ancora. La maestosa e minacciosa croce nera avvolta dalle fiamme di Longo, il feticismo elegante fatto di grovigli e intrecci di cinture in cuoio e fibbie metalliche di Bonvicini, le orribili quanto comiche creature trash in cartapesta di Chetwynd, o l’allucinante camera picta di Dessì. Tuttavia non sempre le cubature del Musja consentono una messa in scena ideale. Così capita che, ad esempio, le grandi tele e i paramenti di Nitsch appaiano troppo compressi nella loro sala, dissipando nel visitatore la trepidazione iniziale di aver profanato il luogo di qualche cruento culto arcaico.
Il catalogo (a cura di Eccher, coedizione Silvana Editoriale e Musja, pp. 276, € 28.00), oltre al testo introduttivo del curatore, raccoglie saggi di Vercellone, Eugenio Borgna, Mario Rasetti e Gianfranco Ravasi, per indagare ancora il concetto di «oscurità» da diversi punti di vista: quello della scienza, della fede, della filosofia e della psicologia. L’orizzonte già esteso del discorso si dilata così a dismisura ed entrano in gioco le idee di morte, follia, speranza, spiritualità, bellezza, intelligenza artificiale… Il volume si fa apprezzare per la ricchezza dei materiali iconografici, che eccedono l’esposizione corrente e offrono una piccola panoramica sulla produzione di tutti gli artisti partecipanti; peccato però che tale abbondanza di immagini e schede tecniche finisca per generare qualche confusione sugli effettivi pezzi contenuti all’interno del percorso e sulla struttura della mostra stessa.
Nel suo insieme, sul piano critico e progettuale, The Dark Side può essere considerata un unico, organico dispositivo finalizzato a enunciare una visione estetica personale che esalta l’ambiguità del buio come simbolo, obbligando chi vi accede a sperimentare disagio e ansia nella convinzione che ciò possa essere se non catartico quantomeno istruttivo.