Per il festival di primavera l’Opera di Lione sceglie ogni anno un filo conduttore: si sa che questi temi sono spesso dei pretesti per raggruppare alcuni titoli legati da maggiori o minori affinità, e stavolta il tema del giardino legava Die Gezeichneten (I Segnati) di Schreker, Orphée et Euridyce di Gluck e Sunken Garden di Van der Aa, una novità per la Francia, nel segno di una natura lussureggiante e pericolosa. Il tema sarebbe potuto ugualmente essere il thriller, rivelando anche curiosi addentellati con l’attualità locale: da un lato infatti le vie della città erano tappezzate di locandine del festival del polar (il poliziesco francese) che si chiude in questi giorni; dall’altro la vicenda che la scorsa stagione ha coinvolto il direttore generale Serge Dorny, (chiamato come direttore artistico al Semperoper di Dresda e fulmineamente licenziato, senza che avesse abbandonato il posto in cui è poi effettivamente rimasto) ha assunto i contorni del giallo internazionale.

Die Gezeichneten (1918), opera fra le più riuscite della voga decadentista tedesca era letta in chiave moderna, con la debauche rinascimentale ideata da Schreker (autore anche del libretto che riecheggia il cinema muto) trasformata in una vicenda di ragazze rapite per realizzare snuff movies. La regia di David Boesch però era monotona e respingente, costretta in luoghi bui e lerci, in contrasto con la ricchezza inebriante della partitura (pur nella versione ridotta a firma dell’autore) felicemente restituita da Alejo Perez; cast omogeneo il cui spiccava l’Alviano personalissimo di Charles Workmann, accanto al Tamare di Simon Neal e alla Carlotta di Magdalena Hofmann. Disegno registico e drammaturgico incidevano invece sul dato musicale in Orphée: la parte del protagonista era sdoppiata in due, un giovane (il controtenore Christopher Ainslie) e un vegliardo (il basso Victor Von Halem), mentre la parte di Amore si scomponeva nelle voci di sei bambini, tutti bravissimi, come l’Euridice di Elena Galitskaya.

La regia di David Marton creava un gioco di flashback poetici e angosciosi, in cui inseriva meditative pagine di Beckett sul senso vano dell’esistenza. Parole battute a macchina dall’Orfeo canuto in un panorama di abbandono e malinconia che sembrava evocare la Promessa di Dürrenmatt. Taglio ardito ma molto efficace, grazie al pieno coinvolgimento di orchestra e coro, sorretti dal vivace e sensibilissimo disegno interpretativo di Enrico Onofri, una bacchetta che vorremmo ritrovare anche sul podio in Italia. I puristi avranno storto il naso, ma alla recita del 21 marzo forse non ce n’erano, perché il successo è stato pieno. Ancora tinte gialle per Sunken Garden, misteriosa vicenda di un documentario su alcune sparizioni inspiegabili che si trasforma in un incubo da quarta dimensione ambientato in un giardino del perpetuo oblio, un po’ «Matrix» un po’ «The Giver».
Si tratta della seconda opera del quarantenne olandese Van der Aa, che ha curato libretto e messa in scena, è stata rielaborata per gli spazi del TNP di Villeurbanne, dopo la creazione londinese del 2013. Esecuzione sbalorditiva per resa tecnica, che richiede perfetta fusione fra orchestra suonata dal vivo e parti elettroniche, passaggi cantanti in ensemble dalle voci in scena e le voci registrate in video.

La musica, che muove da un neominimalismo florido e arricchito di influenze eterogenee (molto pop elettronico), si piega con docile fluidità alle ragioni drammaturgiche, al punto che in alcuni momenti pareva di vedere una realizzazione teatralmente amplificata e destrutturata di una serie televisiva. Applauditissima l’ ottima equipe con i cantanti Roderick Williams, Katherine Manley e Claron McFadden che si univano agli attori delle parti filmate e ai cantanti in video (Jonathan McGovern e Kate Miller-Heidke), grazie all’indefettibile concertazione e di Etienne Siebens.