Dove passa il confine fra teatro e non teatro? Soprattutto se al sostantivo teatro si unisce l’attributo musicale? Fino alla metà del secolo scorso la risposta era abbastanza chiara, anche se fondata più su basi empiriche che teoriche. La Lady Macbeth di Sostakovic è teatro, la Settima Sinfonia di Prokof’ev no. La Lulu di Berg si, la Kammersymphonie op. 9 di Schönberg no, la Turandot di Puccini sì, le sei Bagatallen di Webern no. «Si, no: il resto è demonio» – direbbero le Sacre Scritture.

Il demonio però, con tutto il suo corteggio di dubbi e fragilità, ha iniziato a sfoderare corna e coda sin dall’indomani del secondo conflitto mondiale. Come si fa a negare fibra, seme, pelle teatrale (senza essere rosi dal pentimento) al Gesang der Jünglinge di Stockhausen, a Thema. Omaggio a Joyce di Berio, ai Polytopes di Xenakis o agli Imaginary Landscapes di Cage che formalmente teatro non sono? Da allora il confine tra ciò che è e ciò che non è teatro musicale è diventato una linea morbida, flessibile, priva di una direzione precisa e ci obbliga a ridisegnarne continuamente il profilo.

Lasciando però sul fondo del setaccio, una volta tolti di mezzo gli orpelli esteriori, tre sole, piccole, e a loro volte insicure, parole che continuano in qualche maniera a tracciare un solco, a segnare una differenza: gesto, movimento, rappresentazione.

Se in un qualunque oggetto sonoro, di ogni fattura, stile e dimensione, si riesce a rinvenire una o più di queste «dimensioni» (a volte niente affatto esplicite) allora si rende legittimo il ricorso alla definizione di «teatro». Altrimenti è meglio lasciar perdere. E accontentarsi – se mai ce ne fosse bisogno – di altre cornici, di altri generi. Questa persuasione è diventata ogni giorno più chiara (o per meglio dire meno incerta) man mano che si svolgeva, tra basiliche, isole, cantieri, fondaci e palazzi, il filo incandescente dell’edizione 2022 della Biennale Musica di Venezia, conclusa il 25 settembre. Luogo ideale per un corso di aggiornamento (relativamente) rapido sulle tendenze «teatrali», o forse meta, ipo, iper, infra teatrali della musica attuale.

Anche perché Lucia Ronchetti, la direttrice artistica del festival, tirando ulteriormente per la coda il recalcitrante demonietto post novecentesco, l’ha intitolata «Out of Stage»: al centro la parola dannata stage (palco, palcoscenico, ma anche fase, periodo, tappa, scena, teatro, appunto) e in rapporto ad essa la sua negazione, l’avverbio out: fuori, all’esterno. Forse involontariamente vi si ritrova ricostruita l’etimologia che secondo Carmelo Bene è contenuta in uno dei suoi vocaboli più reiterati: «osceno» che significa letteralmente «fuori scena». Di oggetti «osceni» ne sono apparsi in gran quantità e felice disordine alla Biennale.

Tutti, non a caso, sorvegliati da una categoria del pensiero che ha radici antiche: quella che i tedeschi chiamano veränderung, ossia metamorfosi, trasformazione. La compositrice estone Helga Tulkve, con Visions, ha ad esempio trasformato la Basilica di San Marco non tanto in un palcoscenico, bensì in uno strumento musicale capace di declinare al presente, e alle sue aporie temporali, la prassi della sacra rappresentazione trecentesca; Steven Steen Andersen, in The Return, ha sottoposto a una visionaria metamorfosi Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi rendendolo protagonista di un travolgente hellzapoppin onirico che annulla ogni distanza di spazio e di tempo; Ondrey Adamek in Reaching Out ha creato una perfetta, reciproca metamorfosi tra voci, corpi, percussioni e oggetti sonanti (pietre, pompe, sabbia, perle) che creano un unico grande corpo-strumento, capace di respirare come una organismo umano.

E Michel Van der Aa, in The Book of Water, trasformando in teatro un racconto di Max Frisch, ha rappresentato lo sdoppiamento mentale indotto dall’Alzheimer duplicando tra scena e video le figure complementari di un padre e di un figlio. Il tutto, rigorosamente, «out of stage».