La parola di oggi è un po’ nascosta tra musica e tempo, ed è memoria.

L’espressione della musica è una delle misteriose manifestazioni del rapporto tra tempo e memoria. Quando ascoltiamo un brano ne afferriamo il senso ascoltando e ricordando contemporaneamente note e ritmi appena sentiti, e quando ci sono, le parole di un testo. Spesso per comprendere meglio dobbiamo riascoltare.

E se la musica ci piace la riascolteremo spesso, ogni volta ritrovando ma anche riscoprendo qualcosa che ci era sfuggito, o vivendo con emozioni diverse le stesse melodie, armonie, canti, improvvisazioni, contrappunti.

Ma la musica ha la capacità di evocare molto altro da sé. Fino al punto di farci rivivere attimi di felicità intensa, o di dolore, se quelle esperienze sono legate a un brano che le ha acconpagnate.
Per questo trovo molto giusto riempire una “giornata della memoria” con il fare e ascoltare musica.

Come, tra altre simili occasioni, hanno fatto musicisti e musiciste del “Freon Ensemble” di Roma il 27 gennaio scorso, per iniziativa dell’associazione Resonnance Italia.

Il titolo allude anche al celebre “Quartetto per la fine del tempo” che Olivier Messiaen compose mentre era prigioniero con altri tre musicisti in un campo di concentramento nazista. Di Messiaen la pianista Orietta Caianiello – promotrice del concerto e curatrice del programma – ha eseguito due dei bellissimi e giovanili preludi.

Ma il concerto ha fornito poi l’occasione di ascoltare e ricordare autori meno noti, alcuni dei quali morti nei campi. Ed eseguirne le musiche non è il modo più vitale di conoscerli?

Nico Richter, Erwin Schulhoff, Ilse Weber. Dei quali ho ascoltato intensi pezzi per violino e pianoforte, rielaborazioni raffinate degli stili del jazz, e la struggente ninna nanna cantata dalla Weber mentre accompagnava i suoi scolaretti, compreso suo figlio, in quelle che avevano creduto dapprima essere stanze per le docce e che erano invece camere a gas.

Altre parti del concerto erano invece dedicate ai musicisti ebrei che sono riusciti a emigrare, spesso conoscendo il successo nel mondo americano. Come Irving Berlin, o anche Kurt Weill e Hans Eisler. Weill e Eisler come si sa avevano collaborato intensamente con Brecht.

Molti di questi autori erano anche persone di orientamento antinazista, liberale, socialista, comunista. Ho scoperto che Schulhoff, allievo di Dvorak, critico, pianista e autore di molta musica sinfonica e da camera, aveva anche messo in musica, per soli, coro e orchestra, il “Manifesto del partito comunista”.

Il concerto è stato un viaggio molto ricco tra stili, culture e tradizioni musicali. Dagli influssi delle avanguardie viennesi di Schömberg e Webern fino ai ritmi popolari Kletzmer, la cui eco riemerge nella musica colta di Ernest Bloch, o gli influssi del jazz.

La musica tradizionale ebraica ricorda un poco quella araba e fa un certo effetto ascoltare l’eleganza delle canzoni per Hollywood scritte da un radicale espressionista come Weill. La memoria della shoah non si smarrisce in alcune composizioni di chi è sopravvissuto ma c’è anche chi, come Marius Flothus, sceglie deliberatamente di espungere dalle sue note ogni riferimento alla tragedia della guerra e della persecuzione.

La musica ritorna a dimostrare sempre che è possibile fondere nell’espressione artistica sensibilità diverse e opposte.

E questo è – banale ripeterlo, ma perché no? – un messaggio di speranza contro gli orrori della violenza razzista.

Ascoltiamolo dunque sul sito di Resonnance.

Con un sincero grazie a Orietta Caianiello (pianoforte), Laura Polimeno (voce), Caterina Bono (violino) e Stefano Cardi (chitarra) del Freon Ensemble.