I classici Disney, con gli anni, sono diventati per l’immaginario comune l’apice della cinematografia musicale a cartoni animati. Che siano film bellissimi i vari Dumbo, Pinocchio, Cenerentola e La bella addormentata nel bosco è indubbio, senza contare le derive più moderne de Il re Leone, Aladdin o l’arrivo della Pixar con Up e il recente Soul. Tutte opere d’arte che riflettono il mondo della fiaba in un’ottica matura, senza dimenticare la dimensione giocosa, un mondo di note, balletti e coreografie capaci di catturare grandi e piccini, vere elegie in onore della musica, classica, pop, rock e persino il jazz della Louisiana.
Però i cartoni animati non sono solo Disney, e soprattutto non sono solo i Disney conosciuti, ma anche i successi mancati della casa di Topolino che vengono trasmessi poco in tv, diventando veri segreti da riscoprire, magari custoditi in polverose vhs, preziosi più della «numero 1» di Zio Paperone.
Esistono nazioni poi, compresa l’Italia, che vantano alcuni film di gran pregio, musicali e a cartoni animati, capaci persino di scontrarsi ad armi pari con le produzioni miliardarie a stelle e strisce. Ecco, quindi, la corte dei miracoli degli abbandonati, dei dimenticati, dei musical più sconosciuti, Disney, made in Mosca, Tokyo o negli angusti anfratti della Terra.

FALLIMENTI
Si comincia con un fallimento colossale, Hoppity va in città (Mr. Bug Goes to Town), un film musicale del 1941 nato da un altro flop, I viaggi di Gulliver (1939) di Max e Dave Fleischer, fratelli pionieri dell’animazione statunitense. Grazie alla loro creatività nacque il personaggio della sexy bomba atomica Betty Boop, Braccio di ferro raggiunse il successo del grande pubblico e Superman ebbe la prima, più riuscita trasposizione animata.
Max Fleischer fu oltretutto l’ideatore del rotoscopio, invenzione che impiegò per la prima volta nella serie Out of the Inkwell (1918-1929). Questa scoperta fu l’uovo di colombo per il cinema animato, una tecnica usata per creare un cartone in cui le figure umane apparivano assolutamente realistiche, qualcosa di mai visto prima. Il disegnatore ricalcava le scene a partire da una pellicola filmata in precedenza, a volte proiettate su un pannello di vetro traslucido. L’incontro con il cinema di Wat Disney fu però fatale per Max Fleischer, talmente affascinato dalla visione di Biancaneve e i sette nani da convincere la Paramount a produrgli dei costosi lavori a cartoni animati, i già citati I viaggi di Gulliver e Hoppity va in città, diretto questo dal solo Dave, successi sulla carta, insuccessi nel reale. La colpa però del disastro finanziario, che creò una spaccatura non solo tra la casa di produzione e i registi, ma anche tra gli stessi fratelli, era da imputarsi all’imminente conflitto bellico: la seconda guerra mondiale, infatti, aveva bloccato le uscite all’estero, soprattutto l’Europa che era una grossa fonte di incassi. In più Hoppity fu proiettato in pompa magna il 5 febbraio 1941, solo due giorni dopo scoppiò la battaglia di Pearl Harbour, gli Stati Uniti andarono a combattere, dell’avventura del povero grillo canterino non fregò nulla a nessuno, e Disney per decenni regnò incontrastato nel mercato cinematografico mondiale.
Peccato perché il film era molto divertente e i numeri musicali fantasiosi, canzoni forse non eccezionali ma orecchiabili che passano dalle classiche melodie alla Frank Sinatra a pezzi più movimentati stile doo-wop. Uno dei litigi più incolmabili fra i due fratelli nacque perché Dave voleva firmare anche la colonna sonora, ma Max si oppose categorico. Secondo le previsioni la romantica We’re the Couple in the Castle, accompagnata da un pianoforte, sarebbe stata un successo incredibile ma, così come il film, ebbe lo stesso identico destino di oblio da parte del pubblico. Incredibile a dirsi visto la grande performance di Kenny Gardner su testi di Percy Wenrich, il maestro del ragtime.
È il 1945 quando la Spagna, in pieno regime franchista, decide di lanciarsi in un’avventura a cartoni animati: nasce Garbancito de la Mancha, un’opera musicale interessante, per anni tramandata soltanto attraverso brutte e scolorite copie. Se Walt Disney per Biancaneve e i sette nani ha alle sue dipendenze uno staff di ben mille (validi) collaboratori, il regista Arturo Moreno è coadiuvato da appena cento (inesperti) aiutanti, senza contare il budget di molto inferiore. Questo non toglie però l’importanza storica di Garbancito de la Mancha, primo cartone animato a colori girato fuori dagli Stati Uniti nonché il primo lungometraggio del genere spagnolo e il primo in Europa a utilizzare la tecnica dell’animazione in celluloide. Certo Garbancito de la Mancha era un film prettamente filofranchista tanto da essere dichiarato di interesse nazionale e ricevere un prestigioso premio dal sindacato spagnolo dello spettacolo. La storia segue le avventure di una specie di Don Chisciotte bambino che percorre la Spagna alla ricerca di Kiriqui e Chirili, due amici che il gigante Caramanca ha rapito. Per raggiungere il suo obiettivo, questo ragazzo orfano si armerà di una spada magica e potrà contare sull’aiuto di una fedele capretta. I numeri musicali variano a seconda della versione, in castigliano o in catalano, più movimentati nella seconda versione, un vero scempio di ridoppiaggio concepito dall’emittente Tv3 a fine anni Ottanta con sonorità decisamente moderne e dance. Le canzoni originali, composte da Jacinto Guerrero, passano dal liscio (La canción del trabajo, interpretata da Pepita Russell e Cayetano Renom), all’orchestrale (La danza de los cipreses) fino a ritmi decisamente da polka (Los gusanitos). Il regista Arturo Moreno girerà, insieme al produttore José María Blay, una sorta di seguito di Garbancito de la Mancha, Alegres vacaciones del 1948, film in tecnica mista, attori e cartoni animati che recitano insieme, ma dallo scarso esito commerciale e artistico. Peggio andrà con Los sueños de Tay-Pi, regia sempre di José María Blay con questa volta l’aiuto di Franz Winterstein, regista austriaco a fine carriera.

CONIGLI DA IMPAZZIRE
Bugs Bunny nel 1949 aveva appena 11 anni, ma faceva già impazzire adulti e bambini con la sua battuta «Che succede, amico?» («Ehm… What’s up, doc?» nell’originale). Bugs era una vera star: sicuro, strafottente, simpaticamente guascone. Non stupisca quindi che il film Musica per i tuoi sogni (My Dream Is Yours) di Michael Curtiz, interpretato da Doris Day e Jack Carson, lo inserisca come guest star in un momento onirico: il nostro, vestito in frac viola con bombetta, duetta ballando e cantando con i due protagonisti, vestiti anch’essi da conigli, sulle note della Rapsodia ungherese n. 2. I tre si rincontreranno lo stesso anno per It’s a Great Feeling di David Butler. L’inserimento del simpatico roditore fu imposto dai produttori quando, nel lungometraggio Two Guys from Texas, dell’anno precedente, l’apparizione a sorpresa di Bugs Bunny, di pochi secondi, aveva mandato in visibilio il pubblico.
I racconti dello zio Tom (Song of the South) è un ottimo film Disney, girato nel 1946, che usava la tecnica mista, perfezionata negli anni Ottanta e Novanta da opere come Chi ha incastrato Roger Rabbit, Fuga dal mondo dei sogni e Space Jam. Purtroppo, non è una di quelle pellicole che passa spesso in tv, pur contando l’Oscar onorario assegnato a James Baskett come miglior attore protagonista e la presenza di Gregg Toland, direttore della fotografia per Orson Welles in Quarto potere. Il problema è che anziché contestualizzare, indagare o storicizzare le singole opere, gli Usa preferiscono impedire la visione di film considerati diseducativi, razzisti o sessisti; questo ha portato all’eliminazione di opere d’arte come Via col vento dal palinsesto Netflix, alla censura ai danni della serie tv Tredici (13 Reasons Why), e al rifiuto di inserire sulla piattaforma Disney+ appunto I racconti dello zio Tom, a detta di Bob Iger, presidente della Walt Disney Company, esempio di «razzismo imbarazzante». Da notare che lo stesso Disney considerava il film un’opera importante, tanto da lottare contro le accuse di revisionismo già accese all’epoca. La pellicola è un piccolo capolavoro, commovente e fantasioso, con la grande capacità di creare tre personaggi memorabili come Fratel Coniglietto, Compare Orso e Comare Volpe, presenze fisse nei parchi Disney e protagonisti di avventure molto amate dal pubblico all’interno del settimanale Topolino. Il brano Zip-a-Dee- Doo-Dah, composto da Allie Wrubel (musica) e Ray Gilbert (testo), vinse il premio Oscar per la miglior canzone originale, ed è una delle melodie pop più iconiche dei film d’animazione.

NEVI RUSSE
Dall’Unione Sovietica arriva, bellissimo e inaspettato, uno dei cartoni che più di ogni altro influenzerà la carriera del regista giapponese Hayao Miyazaki: La regina delle nevi. L’opera, girata nel 1957 da Lev Atamanov, è stata uno dei palinsesti natalizi degli anni Ottanta. Di solito si tende a sottovalutare la scuola d’animazione russa, ma uno dei più fiorenti studi cinematografici sovietici era appunto la Sojuzmul’tfil’m, fondata nel 1936 e con all’attivo oltre 1500 cartoni animati, molti dei quali arrivati con successo in Italia. La regina delle nevi è uno dei parti più felici di questa casa di produzione e il capolavoro del suo regista, insignito nel 1978 del titolo di Artista del popolo della Repubblica socialista federativa sovietica russa. La colonna sonora negli States fu completamente rimaneggiata e i momenti musicali scritti da Artemij Ajvazjan sono sostituiti da tre brani, scritti ed eseguiti da Diane Lampert e Richard Loring (The Snow Queen, Do it While You’re Young e la strumentale The Jolly Robbers). La regina delle nevi resta uno dei punti più alti dell’animazione mondiale: tratto da una favola di Hans Christian Andersen, anche a distanza di più di 60 anni può competere senza problemi con i classici Disney. La frase di lancio internazionale poi incarna lo spirito della pellicola, più che un cartone animato con canzoni, una vera opera musicale: «Miracle… Magical… Musical entertainment for all ages of the heart!!!».
Anche in Italia abbiamo avuto il nostro momento Disney: La rosa di Bagdad, girato nel 1949, è stato uno dei punti d’imitazione più alti degli stilemi dei classici statunitensi animati, soprattutto il modello aureo di Biancaneve. A girare l’opera è il regista Anton Gino Domenighini che incominciò la produzione parecchi anni prima, nel 1941, un duro lavoro interrotto più volte a causa delle drammatiche vicende belliche. La rosa di Bagdad ha il primato di essere uno dei primi film italiani d’animazione in Technicolor insieme a I fratelli Dinamite di Nino Pagot, uscito lo stesso anno. Con l’arrivo nelle sale italiane dei film a cartoni animati della Disney, Anton Gino Domenighini ebbe l’idea di produrre un’opera dello stesso genere, e lo fece con il supporto di un gruppo scelto di disegnatori, compreso Libico Maraja, uno dei maggiori illustratori di libri del periodo. Nonostante il film avesse ottenuto il primo premio al Festival internazionale dei ragazzi di Venezia e che la Periodici Mondadori lo rielaborò in fumetto con le tavole del pittore e fumettista Guido Zamperoni, il film ebbe solo una tiepida accoglienza nelle sale. È un peccato perché l’opera, pur non riuscendo perfettamente a giostrarsi tra le parti recitate e i momenti musicali, diventando a tratti un ibrido indigesto, ha una potenza visiva senza paragoni, scene di ampio pathos e personaggi azzeccati. Notevole, nelle parti cantate della principessa Zeila, l’apporto della giovane soprano, Beatrice Preziosa. I suoi momenti musicali, sulla falsariga degli analoghi presenti in Biancaneve, sono i migliori di un’opera che, anche nella costosa imitazione, riesce ad essere originale, a partire dall’idea di non ispirarsi ai classici delle favole ma alle più esotiche Mille e una notte.
Non si può non citare un film d’animazione giapponese come Le 13 fatiche di Ercolino, diretto nel 1960 da Daisaku Shirakawa, Taiji Yabushita e Osamu Tezuka, anche se sembra che quest’ultimo, uno dei maggiori fumettisti, animatori, produttori televisivi e cinematografici nipponici, non avesse mai lavorato all’interno dell’opera, tratta da un suo lavoro. Nominato tra i peggiori 50 film di sempre, è invece un’opera interessante, ottimamente animata, divertente e con interi momenti musicali, ad opera di Ryôichi Hattori, che si rifanno al modello Fantasia della Disney.

IMPEGNO POLITICO
Anche Fritz il gatto (1972) di Ralph Bakshi merita una menzione speciale: rovinato da uno dei doppiaggi italiani ad opera di Oreste Lionello, è, in originale, un cartone animato dal grande impegno politico che cerca di dare uno spaccato della situazione studentesca del periodo, non disdegnando una certa satira di grana grossa, efficace e a tratti spietata. Se in Italia Fritz il gatto, con il suo becero umorismo nonsense a base di rimandi alla tv del periodo, è solo un cartone animato sporcaccione vietato ai minori di 18 anni (rinominato appunto Il pornogatto), negli States l’opera di Bakshi, uno dei geni dell’animazione a stelle e strisce, ha uno spessore maggiore di analisi sociale. Tra i momenti musicali, cambiati e sostituiti nel nostro paese da atroci brani, il migliore è senza dubbio la romantica Yesterday di Billie Holiday che passa dal testo originale «Ieri ieri, i giorni che conoscevo come felici dolci giorni sequestrati giorni antichi giorni d’oro giorni di folle romanticismo e amore» al nostro «Non mi importa se sei basso, non mi importa se sei magro, tantomeno se sei grasso».
Chiudiamo con un classico belga, Il flauto a sei puffi (La flûte à six schtroumpfs) del 1976, diretto da Peyo, un film d’animazione, al pari della già citata Regina delle nevi, sempre presente nei palinsesti di Italia 1 delle feste natalizie anni Ottanta. L’opera, più matura della serie animata dedicata agli ometti blu, creava un perfetto mix tra un intreccio interessante, un’animazione spigolosa ma efficace e le canzoni, orecchiabili e gradevoli anche per un pubblico adulto. La soundtrack, ad opera di Michel Legrand, conta molti momenti strumentali e altri cantati, tra i quali si ricordano con piacere La ballade de la gente dame, intonata da un gruppo di popolani, Hymne au Travail, una versione con testi del tema del film, e Personalità, la presentazione dei vari ometti blu cantata da Grande Puffo. Tutte canzoni usa e getta, ma realizzate con grandissimo piglio professionale, cantate in francese nella prima edizione italiana e poi quasi tutte tradotte nella nostra lingua quando la puffomania impazzava.
Quello che è certo da questo viaggio è che esistono nazioni, paesi e titoli che nulla hanno da invidiare ai classici di Walt Disney e che, per motivi che sfuggono al buon senso, non vengono mai trasmessi dalle tv, non sono mai usciti, come nel caso del meraviglioso Le 13 fatiche di Ercolino, neppure in vhs, e che, senza nessuna divulgazione, andranno persi, per citare Rutger Hauer, «come lacrime nella pioggia».