Nelle sale del Museo Egizio di Torino, dove nel 2015 è stato proposto per la seconda volta (la prima era stata a Vancouver nel 2010), Sonic Genome si era nutrito di una suggestione unica. Tuttavia il Martin-Gropius-Bau, edificio neorinascimentale disegnato dal prozio di Walter Gropius e inaugurato nel 1881, si è rivelato uno spazio ancora più congeniale a mettere in valore la filosofia della visionaria creazione di Anthony Braxton, che a Berlino ha avuto la sua terza presentazione, in apertura del Berlin Jazzfest. Sessanta i musicisti impegnati questa volta, con la direzione generale di Braxton, James Fei e Chris Jonas: iniziano tutti insieme, in un angolo del grande e alto salone, sormontato da una cupola a vetri e cinto sui quattro lati da un portico a colonne, sopra il quale corre un loggiato. Poi la formazione comincia a dividersi: dei gruppi si collocano in altri due angoli, e da questi si scindono dei sottogruppi.

QUALCUNO suona nell’atrio di ingresso, altri salgono le scale, si fermano a suonare lungo il loggiato, oppure dentro le sale che al piano terra e al primo piano stanno intorno al salone e ospitano esposizioni di arte contemporanea. I gruppi si scompongono e i sottogruppi possono ricomporsi dando vita a nuovi gruppi. Si spostano con i leggii, si fermano, aprono gli spartiti e suonano. A disposizione ci sono da eseguire una quantità di composizioni di Braxton, ma nulla vieta che i gruppi eseguano altri materiali a loro scelta. Ci sono degli organici di fiati, di archi, un gruppo di voci femminili, oppure delle combinazioni più varie, come per esempio bassotuba, marimba, trombone, clarinetti, o fisarmonica, arpa, sax, clarinetto, trombone. Si sente un pianoforte e di primo acchito non si capisce da dove: è dentro una struttura/installazione piena di piante, in mezzo al salone. Ognuno dei gruppi suona in maniera indipendente, si sentono musiche più orientate alla melodia, altre più da avanguardia novecentesca o free, ma non c’è cacofonia, l’effetto complessivo è quello di un ambiente sonoro con un flusso spazializzato piuttosto sensuale, a volte maestoso.

IL PUBBLICO può muoversi a proprio piacimento, e spostandosi si ha l’ebbrezza di diverse, affascinanti prospettive di quello che si sta ascoltando. Ci sono dei momenti di raccordo prefissati, in cui tutta la formazione si riunisce, diretta da Braxton – che in alcuni momenti suona anche il sopranino – da Fei e da Jonas. Sono sei ore di performance, dalle sette di sera all’una di notte, una durata che allude all’infinito: perché Sonic Genome è una pratica di apertura inter-relazionale, musicale, spaziale, temporale. Alla fine i musicisti cominciano a sparpagliarsi e a defilarsi: stando al piano terreno del salone c’è un senso magico di suono avvolgente, che via via si rarefà, fino al silenzio. Braxton non esce a raccogliere gli applausi, ma il pubblico rimasto ha ragione di applaudire a lungo, applaude la musica, che è come se fosse rimasta nell’aria. C’è un grande respiro, in Sonic Genome, un respiro musicale e politico: è il respiro della socialità libertaria, dell’inclusione, della condivisione, del gioco.
È lo stesso respiro che c’è in un incontro col pubblico che Braxton assieme a Fei tiene due giorni dopo alla Berliner Festspiele, sede principale delle altre tre giornate del festival. Parla della situazione politica Usa e della necessità che gli artisti si assumano delle responsabilità. Gli chiedono che cosa ha detto ai musicisti che hanno partecipato a Sonic Genome, molti dei quali non in confidenza con la sua musica e le sue idee: «Have fun! Divertitevi!», invitandoli a non preoccuparsi degli errori. Diversi dei nomi che qua e là cita, non direttamente in riferimento a Sonic Genome, sono però illuminanti: Charlie Parker, Paul Desmond, Warne Marsh, il re della march music John Philip Sousa, John Cage, ma anche Walt Disney, «uno dei miei eroi», e – parlando del suo amore per la Germania – Bach, Hildegard von Bingen, Schoenberg, Stockhausen, ma anche Wagner.

NELL’ULTIMA giornata del festival Braxton si è poi esibito con il suo settetto Zim Music (il leader ai sax basso, alto, soprano e sopranino, e poi sax, due arpe, fisarmonica/voce, tuba, violino): un’ora di magnifica capacità conversativa e di arte di ascoltarsi, dentro una dimensione cameristica non priva di momenti lirici e dolci ma sempre rigorosamente informale. Se Braxton è stato indubbiamente un successo della 56esima edizione del festival del jazz di Berlino, non tutto il cartellone ha brillato. E considerato che a Berlino cinquant’anni fa, nel ’69, è nata la Fmp, etichetta fondamentale per l’improvvisazione radicale, e che trent’anni fa è caduto il muro, Nadin Deventer, dallo scorso anno direttrice artistica della manifestazione, avrebbe per esempio potuto pensare a celebrare il ruolo cruciale svolto dalla Fmp in pionieristici contatti fra improvvisatori delle due Germanie.