Il paradosso, in fondo, è sempre quello. Qualcosa che non significa nulla, di per sé, e che se invece (inevitabilmente) si mescola con la carne, il sangue e le idee delle persone significato sembra averne molto, moltissimo, in certi casi. Il «qualcosa» è la musica. Una successione di note qualsiasi, che sia avvertita come armoniosa o dissonante al nostro orecchio – e molto qui dipende dalla cultura, non dalla natura – di per sé ha significato zero. È un agitarsi di molecole nell’aria, come diceva beffardo Frank Zappa. Eppure se pensate alla quartina iniziale di note che battono perentoriamente all’inizio della sinfonia detta Eroica di Beethoven sembrerà del tutto naturale che sia stato detto che è chiaramente «il destino che bussa alla porta». Se poi le musiche sono ambientate all’interno di processi storici in cui tutto è discusso e in sommovimento, perché la storia, appunto, sta prendendo nuove derive e nuovi assetti, va a finire che non solo sembrerà che le musiche abbiano significato, ma diventano funzionali e «funzionanti», per così dire. Veicolano socialità e aggregazione e nuovi significati. Pensate a Bella ciao, che in origine era un canto contadino, o alla Marsigliese.

Tutte queste riflessioni sono al cuore di un testo bello e impegnativo di un giovane storico che, per la prima volta in Italia, affronta l’inedito dipanarsi delle vicende che riguardano i rapporti tra note ed assetti sociali in divenire, nel nostro paese. Vicende di un periodo cruciale, perché Musica e politica di Lorenzo Santoro (Marsilio ed.) ha come sottotitolo «Dall’illuminismo alla repubblica dei partiti». Fermo restando che in realtà le coordinate cronologiche della notevole ricostruzione storica sono da intendersi un po’ prima dell’Illuminismo, con richiami dunque a Cinquecento e Seicento, e arrivano fino all’oggi: perché è ben vero che l’ultimo quarto di secolo ci ha regalato una torsione politica complessiva a dir poco epocale della «prima Repubblica», ma è altrettanto vero che la Repubblica dei partiti grossomodo (mutatis mutandis) quella è ancora oggi. Con un fatto cruciale che Santoro analizza per la prima volta nel dettaglio: quando le Feste dell’Unità impostarono un rapporto a dir poco problematico e caotico con le note classiche, jazz, popular e delle avanguardie in genere, negli anni Sessanta e Settanta e Ottanta del secolo breve che breve non fu. Ma la ricerca parte, s’è detto, da lontananze storiche notevoli: da quando la musica era in perfetta corrispondenza con la società di corte, rinchiusa nello scientismo e nel meccanicismo, disciplina esatta per cui a certi suoni dovevano corrispondere certe emozioni. Di classe, si intende. Paradigma poi rovesciatosi nel cosiddetto «triennio giacobino» allo scorcio estremo del Settecento, e poi con i moti del ’20 e del ’30, e con il ’48. La musica perde il suo senso di astratto divertimento per i nobili, e irrompe il sentimento nel «teatro democratico» dei suoni. Con un primato però della letteratura e della parola, tipicamente «italiano» (quando ancora l’Italia unita non c’era!) che non sarà senza conseguenze – indaga Santoro – sul futuro della musica meramente strumentale. Nel mezzo corre anche la vicenda del teatro musicale borghese, il melodramma classico, che, si noti, ai primi dell’Ottocento è ancora tutt’altro che quel canone di classicità e nazionalismo sotto mentite spoglie oggi dato per scontato. Un grande spazio è occupato nel testo dalla considerazione per la musica come atto performativo, come oralità e gesto fisico, oltre che come «musica mensurata» sul pentagramma: Leopardi sembra cogliere a fondo il senso del «gesto musicale» e il rifiuto della pura ragione, Antonio Gramsci, invece, manca completamente nei suoi scritti il senso moderno e «popular» della fisicità nella musica. E, paradossalmente, in Italia parte del significato delle nuove note afroamericane e del valore e della necessità della performance lo colgono invece spiriti elitari e borghesi che si atteggiano ad antiborghesi e rivoluzionari: i protagonisti del Futurismo. Di tutto questo abbiamo parlato con lo storico, a partire da una considerazione sul senso ultimo di Musica e Politica: «Il senso è che l’irrompere della modernità scardina la vita delle persone. Nasce la sfera pubblica. Prima erano note per curare la noia delle élite o per i riti del popolo, dei contadini. Con la Rivoluzione francese la società esplode. Nasce la sfera pubblica. Della presa della Bastiglia se ne parlerà nei successivi duecento anni, è un fatto cruciale, mostra che il popolo se vuole si riprende il potere. La musica si riprende dunque un altro ruolo, e questo a partire dal tardo Illuminismo, quando per la prima volta si intende la musica come strumento per educare il popolo, vedi ad esempio il pensiero di Gaetano Filangieri».

La lingua italiana nasce prima come lingua letteraria delle élite. Questa preponderanza quanto ha pesato, sulla musica?

Più ancora che lingua letteraria, direi prima lingua artistica e lingua musicale. Nel Settecento pensavano che si potesse cantare solo in italiano. L’italiano non lo parlavano neppure i politici, Cavour parlava francese. È un altro punto cruciale. Anche per Leopardi, che è una figura decisiva di pensatore, su questi temi la lingua deve essere più vicina alla musica che alla scrittura. Deve esprimere meraviglia e commozione, e in maniera non conservativa, non regressiva: auspica un uomo capace di passioni genuine, non omogeneizzate nel mito razionalistico e astratto del progresso. È un discorso assai complesso.

Quando arriva invece il momento di saldatura tra teatro d’opera, bel canto e sentimento nazionale?

Sicuramente il teatro d’opera è costruito dai borghesi, è il luogo d’incontro segreto in cui la borghesia si può incontrare per discutere di tutto. Per giocare a carte, per fare politica. Non è corretto però neppure fare di Verdi un eroe politico, successe anche, come a Mantova, che le sue opere vennero considerate filo-austriache e fischiate. Gramsci, ricordiamo, non amava l’opera in tal senso: la considerava una «melodrammizzazione» delle masse rurali , retorica e inutile patetismo antipolitico. L’opera è un fenomeno assai complesso, insomma. Però è un fatto che tutti gli intellettuali dell’Ottocento, per così dire, investono sulla musica; Mazzini su Donizetti, Luigi Angeloni su Guido d’Arezzo, Leopardi su Rossini: ognuno tenta di tradurre le proprie idee politiche in estetiche musicali. Con tutti i limiti del caso, ma la modernità politica ha bisogno di grandi cambiamenti estetici.

L’aspetto performativo della musica rispunta fuori , paradossalmente, in un movimento assai elitario, come il futurismo…

È anche qui un fenomeno più complesso, nelle società europee arriva dall’altra parte dell’oceano una nuova considerazione per il corpo, la danza, il tango, peraltro subito scomunicato dalla Chiesa, le note «sincopate», come si diceva allora. È un fenomeno di massa, questo. Il jazz diventa subito popolare, anche per l’aspetto timbrico nuovissimo, inedito. Alle orecchie di un ascoltatore degli anni Dieci e Venti è un altro pianeta sonoro. È questo che affascinava Marinetti, che stilava elenchi di fatti culturali che secondo lui erano al di fuori dei canoni borghesi. Il Futurismo è organizzazione artistica di eventi-happening, l’improvvisazione e chi li finanziava. Come ai concerti degli Skiantos, decenni dopo. La performatività contro i baluardi identificati della cultura borghese: la letterarietà, la proprietà, la sessualità repressa. Tutti il discorso futurista è assai problematico, comunque. Non parla alle masse, ma è di intellettuali per intellettuali. È l’Italia, non è allora l’America di Gershwin. È un paese agricolo. Non c’era ancora un «mercato» per la musica leggera. Non c’erano i jukebox.

Nel tuo libro dedichi largo spazio al secondo dopoguerra, e all’evoluzione della politica culturale del Partito comunista nei confronti delle musiche possibili con le Feste dell’Unità, e l’avvento delle Regioni…

Succede che dagli anni Sessanta agli Ottanta organizzazione e ideologia si tengono, e cambiano. È Il grande tentativo di abbracciare la società italiana con i moduli del partito nuovo togliattiano. È arrivata anche la cultura di massa, con il boom economico, il festival di Sanremo. All’inizio c’è la condanna della musica leggera sulle riviste di partito, l’idea di ripudiare le multinazionali che vendono i dischi alle masse, ma poi le cose cambiano, anche se il Pci «manca» clamorosamente la presa sui nuovi movimenti giovanili e i loro bisogni, per lungo tempo. Ma c’è anche chi qualcosa capisce, nel partito, negli anni Settanta: nascono le scuole di musica, le radio locali, con l’organizzazione del partito che, nelle persone di singoli militanti o funzionari ambiziosi prendono in mano la situazione come volàno. E così ci si riesce anche, parzialmente, a svincolare dall’ormai esausta logica del finanziamento di Mosca al partito, parallelo a quello che la Dc riceve dagli Usa. Le Feste dell’Unità a un certo punto sono sponsorizzate dalle grandi etichette discografiche. E il partito scopre e propone la musica classica dei Berliner Philarmoniker. Ma ci sono anche punti di frizione, come nel caso del famoso concerto di Luigi Nono al Palasport fischiato e interrotto, con Nono che ritiene di fare musica organica al «nuovo» partito e antiborghese. È curioso rileggere scritti di Napolitano che mette in guardia allora dall’«estremismo giovanile» movimentista, accusato di essere mera nostalgia regressiva di un mondo pre-industriale. Ma il fenomeno delle Feste dell’Unità è complesso: decine di musicisti jazz oggi affermati si formano in quell’ambiente, Gaslini fa il primo corso di jazz al S. Cecilia, nasce in quest’ambiente il Gruppo di Nuova Consonanza. È, nel complesso, una stagione di straordinaria creatività che si appoggia a un partito contraddittorio, ma strutturato e incontrovertibilmente asse della società. Il mio libro si interrompe qui, al 1975 circa. Oggi posso dire che la verticalizzazione della politica ci fa parlare solo di leader e non più di persone e di movimenti e di partiti. Sarà dura scrivere di «musica e politica» per quest’ultimo trentennio, per gli storici futuri.