Per un puro e felice caso ho visto e ascoltato domenica a Napoli la Lady Macbeth del distretto di Mtsensk di Shostakovich (leggi la recensione qui, ndr).

La musica saliva forte e nitida sino al loggione dello splendido San Carlo, ben eseguita, ben cantata (da Elena Mikhailenko e dagli altri) e ben diretta da Juraj Valcuha.

Me la godevo a teatro per la prima volta. E mi chiedevo che cosa di questo spettacolo avesse davvero irritato Stalin e i censori sovietici che – dopo due anni di successi in Urss e nelle capitali occidentali – nel ’36 fecero stroncare l’opera e il suo autore dalla Pravda definendola “caos”.

La cruda rappresentazione del degrado che infliggono all’amore il desiderio del denaro e il bruto potere della sessualità maschile? Le dissonanze e gli sberleffi quasi pornografici della partitura? La messa in ridicolo dei poliziotti? O il canto commovente dei forzati che marciano verso la Siberia lungo una strada «disseminata di ossa»?

È consolante, anche se ovvio, constatare una volta di più come nella complessa estenuante lotta tra il musicista e il dittatore, alla fine abbia «vinto» il primo.

Ma la battaglia per la libertà dell’espressione artistica non riguarda solo la rozza e violenta ingerenza di un regime dispotico. Sono esistiti e per certi versi permangono altri più sottili meccanismi di esclusione.

Per un’altra coincidenza scrivo mentre è prevista per oggi a Roma una iniziativa per «ridare voce» alle musiciste che fino a non molti decenni fa ben difficilmente entravano nei programmi di sala o divenivano oggetto di studio.

Nessuna censura ideologica qui, ma l’effetto di un pregiudizio di genere.

Si tratta della terza edizione di una giornata di studio organizzata da un gruppo di docenti e di musiciste e musicisti (Luca Aversano, Raffaele Pozzi, Barbara De Angelis, Orietta Caianiello, Milena Gammaitoni, Gilberto Scaramuzzo) con la collaborazione del Dipartimento di Filosofia Comunicazione e Spettacolo, della Fondazione Roma Tre – Teatro Palladium e dell’ Associazione Toponomastica femminile.

Dalle 10 di stamattina all’Univesità (Via Principe Amedeo, 182 /b Roma Aula 4, I piano) si terranno relazioni sullo stato dell’arte della ricerca, approfondimenti e testimonianze su singole figure (Teresa Procaccini, Julie Baroni Cavalcabo) e situazioni estreme della storia, come quella dell’orchestra femminile che si formò nel campo di concentramento di Auschwitz, diretta da Alma Rosé, violinista affermata e nipote di Gustav Mahler.

Nel pomeriggio pezzi teatrali e musicali, alcuni sul tema di tre famose coppie del romanticismo: Geroge Sand e Chopin, Clara Wieck e Schumann, Fanny e Felix Mendelssohn (di Clara sarà eseguito il Trio in sol minore op.17 da Raffaello Galibardi, Roberto Vecchio e Guido Carpentiere).

Infine giovedì 26 concerto alle 20,30 al teatro Palladium: Filippo Fattorini, Andrea Fossà e Orietta Caianiello eseguiranno un programma tutto di compositrici: Sylvia E . Hazlerig (1934), Pauline Viardot (1821-1910), Cécile Chaminade (1857-1944), Nadia Boulanger (1887-1979), Lili Boulanger (1893-1918), Elfrida Andrée (1841-1929).

Gli eventi sono accompagnati da una mostra sulle donne nell’arte.

Quest’anno l’iniziativa che coinvolgeva anche la Scuola popolare di musica del Testaccio si è invece articolata in due proposte distinte.

La Scuola del Testaccio ha organizzato tre concerti dedicati a «Le Compositrici» tra febbraio e marzo scorsi: la contemporaneità è stata interpretata da Rita Marcotulli e Giovanna Marini, mentre uno dei concerti ha portato alla ribalta “vite di musiciste ribelli” anche dei secoli passati.