Merck Mercuriadis, chi era costui? Semplice: è l’uomo che, senza spendere un dollaro (almeno per questa volta), ha innescato il più vorticoso giro di giostra del music business mondiale, culminato nell’acquisto, da parte di Universal, del Santo Graal della musica popolare: le oltre 600 canzoni scritte da Bob Dylan in 60 anni di carriera, incluse Blowin’ in the Wind, Like a Rolling Stone e Mr. Tambourine Man. Prezzo dell’operazione? 300 (o 400, secondo alcuni) milioni di dollari. Una cifra probabilmente fuori mercato per qualcosa di troppo prezioso per avere un prezzo.

ANNI RUGGENTI
La settimana prima, Primary Wave Music aveva speso, si dice, 100 milioni di dollari per acquisire l’80% dei diritti sulle canzoni di Stevie Nicks, comprese quelle scritte negli anni ruggenti dei Fleetwood Mac. E qualche giorno dopo, anche David Crosby, ha annunciato che stava per cedere il suo catalogo. Ha detto di essere costretto a farlo, perché la pandemia gli aveva portato via i concerti, la musica digitale gli aveva rubato i soldi e i mutui, invece, erano rimasti lì da pagare. Probabilmente scherzava. Dolly Parton, come sempre, è stata più realista: anche lei ha dichiarato che metterà in vendita i diritti di I Will always Love You e di tutto il resto del suo repertorio ma lo farà per «motivi ereditari». Più credibile, va detto. E ancora Blondie, Chrissie Hynde, Dave Stewart (Eurythmics), Killers o Imagine Dragons, tutti in fila a vendere i propri diritti editoriali.
Ma cosa sta accadendo nel mondo delle canzoni? E che cosa è stato effettivamente venduto? Per poi arrivare alla domanda finale: Merck Mercuriadis chi era costui? Andiamo per ordine e iniziamo dal principio. La Universal ha comprato i diritti di utilizzazione economica delle canzoni di Bob Dylan. Che significa? Per registrare una canzone di un disco, per suonarla dal vivo, farla ascoltare in tv o alla radio, distribuirla su una piattaforma digitale, inserirla come colonna sonora di un film o di uno spot di pannolini, c’è bisogno di una licenza concessa dal soggetto che ha i diritti su quella canzone. Quel soggetto è originariamente l’autore del brano; oppure, il suo editore, se l’autore ha ceduto i suddetti diritti a un altro soggetto (che, come nel mercato della carta stampata, si chiama editore). Spesso l’editore è una società che appartiene all’autore stesso. La licenza (che è sostanzialmente il permesso di utilizzare economicamente una canzone) viene concessa dall’editore dietro pagamento di un corrispettivo; questo compenso viene diviso al 50% tra autore ed editore. I rapporti tra editore e autore sono regolati da un contratto che si chiama contratto editoriale. Per cui: se domani qualcuno vorrà utilizzare Hurricane, un altro classico di Dylan, per pubblicizzare dei guantoni da boxe, dovrà chiedere il permesso a Universal che a sua volta, trattandosi di una pubblicità commerciale, dovrà chiedere il permesso a Bob Dylan (e a Jacques Levy, l’altro autore del brano, che rimangono comunque titolari del loro diritto morale sulle proprie opere, vale per tutti) e poi, in caso positivo, fissare un prezzo. Quel prezzo, se pagato, sarà diviso tra Universal e autori in quote uguali. Funziona così. Ora, i cataloghi editoriali di canzoni si sono sempre venduti, in tutto il mondo e più o meno tra le stesse parti e per le stesse ragioni. Le major editoriali (Universal, Sony Atv, Warner Chappell, Bmg Rights) e poche altre realtà indipendenti e locali compravano per conquistare fette di mercato e impreziosire i loro cataloghi e quindi i loro asset patrimoniali.
Dall’altra parte, piccoli, medi e grandi autori vendevano i diritti sulle loro canzoni per le ragioni più disparate: per improvviso bisogno di soldi, per consigli poco scrupolosi o molto interessati, per evitare beghe ereditarie, perché in quel momento la legislazione offriva particolari opportunità sul trattamento fiscale del capital gain (e cioè la tassazione sulle plusvalenze generate dalla vendita di alcuni beni rispetto al loro valore iniziale; per esempio negli Usa si prevede che l’amministrazione Biden possa avere un approccio fiscalmente meno favorevole per chi vende, imponendo una tassazione più elevata sul capital gain).
O per comprare macchine, barche, ville o squadre di football. Poi è arrivato Merck Murcuriadis. Canadese, 57 anni, già protagonista di molte vite, è stato prima direttore artistico della Virgin di Richard Branson, poi fondatore della Sanctuary, potentissimo network di agenzie di manager musicali e etichette discografiche. Manager di decine di megastar da Elton John ai Guns N’ Roses, da Morrissey a Beyoncé, due anni fa decide di cambiare pelle lui e di cambiare connotati al mercato del publishing musicale. Fonda Hipgnosis Songs Fund, società di investimenti costituita e poi quotata alla Borsa di Londra per acquisire cataloghi musicali in giro per il mondo.

UN GRIDO
Al grido di «le canzoni sono beni affidabili, al pari dell’oro e del petrolio», in due anni Mercuriadis ha raccolto da una pletora di investitori (tra cui the Church of England…) una cifra vicina al miliardo di sterline, poi riversata sul mercato musicale per comprare più di 13mila canzoni, tra cui migliaia di hit mondiali di ogni tempo, capaci di arrivare al n. 1 delle più importanti classifiche del globo. C’è solo l’imbarazzzo della scelta: si va da Don’t Stop Believin’ (Journey) a Livin’ on a Prayer (Bon Jovi); da Umbrella (Rihanna) a Shape of You (Ed Sheeran), sino a Sweet Dreams (Are Made of this) (Eurythmics) e Let’s Stay Together (Al Green).
Improvvisamente, il business dei diritti sulle canzoni è stato travolto da una massa di denaro mai vista prima e le major del settore sono state per la prima volta costrette a inseguire un intruso capace non solo di ridisegnare prezzi e strategie del settore ma soprattutto di sottrarre le canzoni all’oligopolio dei soliti noti del business musicale trasformandole in asset appetibili ai capitali della finanza di tutto il mondo.


 Nella foto Merck Murcuriadis

 

Come ogni rivoluzionario che si rispetti, Mercuriadis prima ha fatto breccia negli artisti, proponendosi come «uno di loro» e dichiarando pubblicamente che la sua è, prima di tutto, una iniziativa volta a tutelare meglio i diritti degli autori ed a creare una sorta di «songwriter guild», un sindacato degli autori di canzoni che possa muoversi e negoziare duramente come il potentissimo sindacato degli autori del cinema; poi, ha avuto la forza, la credibilità e il talento di convincere istituzioni finanziarie e piccoli risparmiatori dell’acqua calda celata dalle canzoni.
In fondo, bastava metterci il naso dentro, per accorgersi che le canzoni di successo hanno rendimenti economici sostanzialmente stabili nel tempo e quindi sono beni affidabili; che il mercato digitale della musica sembra finalmente destinato a una crescita costante e diffusa su tutti i mercati nazionali assicurando agli evergreen una coda di vita economica estremamente redditizia (basta vedere cosa succede ad ogni Natale ad All I Want for Christmas Is You, il brano di Mariah Carey che inesorabilmente, sotto l’albero, consuma decine di milioni di streams); che le canzoni non richiedono un grande lavoro di gestione che, in buona misura, viene svolto dalle varie collecting societies, le società degli autori e editori che gestiscono il sistema delle licenze per alcune tra le principali utilizzazioni; che le canzoni sono beni di durata, considerato che i diritti patrimoniali degli autori durano per tutta la loro vita e per i 70 anni successivi alla loro morte; e che, considerata la varietà di utilizzazioni di cui una canzone è passibile, esse sono piuttosto insensibili ai cicli economici (persino nella pandemia, le enormi minori entrate generate dal blocco degli spettacoli dal vivo sono state, seppur in qualche misura, compensate dalle entrate discografiche e dalle licenze di sincronizzazione per uso pubblicitario e/o televisivo).
Basta e avanza per far partire una rivoluzione che presto potrebbe incendiare anche l’ancora sonnolento mercato italiano, sempre restio a offrire credibilità, in qualsiasi ambito, alla musica popolare. E che domani potrebbe portare a un vera e propria «borsa delle canzoni», estesa ai piccoli risparmiatori che potrebbero scommettere sulle fortune di singoli titoli e scambiare sul mercato le relative azioni. «The times they are a-changin’», i tempi stanno per cambiare, diceva Dylan quasi 60 anni fa. Vale ancora oggi, sembra.

*avvocato esperto in diritto d’autore