Qual è oggi la mission (il termine è ormai ubiquo) del museo? È facile dire che esso non può essere solo un contenitore destinato alla conservazione e all’esposizione ma deve valorizzare il patrimonio che contiene ‘comunicandolo’ nel modo giusto ai suoi utenti; che, essendo luogo privilegiato della trasmissione della memoria, deve colmare per quanto è possibile la distanza tra oggetto e visitatore, facendo in modo che quest’ultimo integri il passato col proprio presente attraverso un’esperienza non solo cognitiva ma anche emozionale. Ma come?

Lo strumento migliore per arrivare a questo risultato è considerato oggi da molti lo storytelling. Ne sono convinti anche gli undici autori di varia specializzazione che, coordinati da Cinzia Dal Maso (giornalista con formazione antichistica, molto attiva nel campo della divulgazione archeologica), hanno contribuito al volume Racconti da museo Storytelling d’autore per il museo 4.0 (Edipuglia, pp. 250, euro 16,00).

Cos’è lo storytelling? L’espressione moderna si riferisce a tecniche studiate per comunicare contenuti, idee, valori e sempre più largamente applicate nel settore della promozione aziendale. Ma il principio è antico quanto l’uomo, e può essere agevolmente trasferito ad altri campi. Raccontare storie è da sempre un modo eccellente per trasferire conoscenza ed esperienza, creare identità (individuale e collettiva), garantire continuità dei saperi, preservare culture, progettare il futuro. Perciò – sostengono gli autori – sempre più e sempre meglio va fatto ricorso alla narrazione nei musei. Senza arrivare al caso estremo del Museo dell’Innocenza, l’affascinante creazione di Orhan Pamuk (una selezione del quale, lo ricordiamo, è ospitata fino al prossimo 24 giugno nel museo Bagatti-Valsecchi di Milano) dove oggetto e narrazione esistono l’uno in funzione esclusiva dell’altra, bisognerà pure che siano messi al bando una volta per tutte cartellini del tipo ‘idria attica con il mito delle Leucippidi’, decifrabili solo da esperti che in quanto tali non ne hanno neppure bisogno. Come osserva Giuliano Volpe nell’introduzione al volume, «solo una visione elitaria, aristocratica, della cultura e dei musei ha portato a ritenere che un oggetto parli da solo». E anche quando le didascalie sono più estese e consentono di mettere a fuoco l’oggetto dal punto di vista storico ed estetico, spesso, continua Volpe citando Chiara Frugoni, «non c’è nessuna attenzione al significato, alle storie raccontate dall’artista, e dunque si dimentica che queste immagini sono state fatte per comunicare un messaggio». Quella del raccontare l’arte è a sua volta un’arte, anzi, secondo una felice formulazione di Dal Maso, «un misto di conoscenze, tecnica e arte. E quando il racconto entra in museo, le ultime due devono piegarsi alla conoscenza, essere al servizio del messsaggio del museo, confrontandosi con le lacune della conoscenza e stimolando la curiosità e la ricerca».

È un fatto che siamo meglio disposti ad accogliere informazioni in forma di storie anziché di aridi enunciati. Hayden Whyte, il noto epistemologo da poco scomparso, sosteneva del resto che la stessa storia, lungi dall’essere una scienza ‘dura’, si avvale delle tecniche della retorica per generare delle narrazioni fornite di significato e al tempo stesso interessanti. Dice bene Mariangela Galatea Vaglio nel suo saggio: la gente, anche quando sa che ciò che è detto è importante, se non le viene detto in maniera accattivante tende a distrarsi. In più, tra un testo informativo e un racconto (ovvero lo storytelling) c’è una differenza sostanziale: il racconto crea una comunità. Si pensi ai grandi poemi epici dell’antichità: quanti prendevano a modello gli eroi narrati, condividendone i valori e imparando dal racconto le regole della vita sociale, si costituivano in comunità, creavano dei fortissimi legami identitari.

Il turismo di massa porta oggi nei musei un pubblico molto eterogeneo, e lo storytelling dovrebbe servire appunto a farlo sentire parte di una comunità, a trasformare il visitatore casuale in essere umano coinvolto. Non deve fornirgli (soltanto) nozioni, ma fargli vivere esperienze.

Gli oggetti sono portatori di storie. Neil MacGregor, quando era direttore del British Museum, ha raccontato in un libro la storia del mondo attraverso 100 oggetti conservati in quel museo. Show and tell è una formula sempre efficace. Italo Calvino nelle Lezioni americane parla di ‘far vedere’ a chi legge o ascolta quel che si dice, ovvero di costruire una storia partendo da immagini. Qualche anno fa l’Oriental Institute dell’Università di Chicago chiamò persone che facevano i mestieri più disparati (un poliziotto, una stilista, un tassista, un medico, un fornaio e molti altri) e le mise di fonte a oggetti del Vicino Oriente antico che avevano attinenza col loro lavoro. A partire da quegli oggetti, ciascuno immaginò la vita del suo antico ‘collega’, costruì delle storie attraverso le quali scoprì qualcosa di nuovo non solo sul passato ma anche su se stesso: un bell’esempio di come il museo non debba indottrinare ma suscitare domande e provocare reazioni. Anche perché, come ammoniva Voltaire, «il segreto per diventare noiosi è dire tutto».

Ciascuno dei saggi compresi in questo volume affronta da prospettive diverse e illustra con case-studies appropriati la necessità di forme di comunicazione museale innovative, capaci di portare il visitatore a interagire. Aldo Di Russo però ci mette in guardia: interattività non vuol dire banalmente toccare uno schermo e accedere a informazioni di vario tipo. L’interattività è essenzialmente «intellettuale e fantastica», ed è messa in moto da quello strumento privilegiato che è lo storytelling. Aristotele dice che la conoscenza nasce dalla meraviglia. Ma il suo thaumazein ha poco a che fare con lo stupore passivo indotto da ‘effetti speciali’. È piuttosto lo stato d’animo di chi si confronta con esperienze inaspettate e ne trae lo stimolo per attrezzarsi a comprendere meglio la realtà.

Lo storytelling rappresenta allora il futuro del museo 4.0 ? Ci piacerebbe sperarlo, ma le cronache recenti non inducono all’ottimismo. La House of European History, da poco inaugurata a Bruxelles, è un museo nato con l’obiettivo di dare un fondamento culturale alla nozione di cittadinanza europea. Doveva essere il racconto condiviso di una comune storia europea, ma chi lo ha visitato ha lamentato che da questo racconto sono stati espunti temi ‘caldi’ come la religione e l’emigrazione, mentre il discorso sulla colonizzazione resta volutamente ambiguo. Per non volere urtare nessuna suscettibilità si è finito per rinunciare a un racconto più completo che avrebbe potuto stimolare delle riflessioni magari meno ireniche ma certamente più produttive per una maturazione delle coscienze.