«Tempi deliranti chiedono un’arte delirante», scandisce lo slogan della grande mostra Delirious che si chiude proprio oggi al Metropolitan Museum di New York, riprendendo e insieme stravolgendo il motto stesso della modernità, quello inciso sotto la cupola del Padiglione della Secessione a Vienna: «A ogni epoca la sua arte, all’arte la sua libertà».

I nostri tempi sono dunque deliranti? Non sono in pochi a pensarlo.

A partire da Rem Koolhaas con il suo Delirious New York (1978) e appena prima, di diritto se non di fatto, da Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Isenour e il loro Learning from Las Vegas (1972), cioè dai primi segni del cosiddetto postmodernismo.

Un’altra occorrenza altrettanto significativa in realtà fu già quella di Salvador Dalì – di cui peraltro tornano finalmente in traduzione italiana gli scritti suoi più importanti, anche se raccolti sotto un titolo ammiccante ma fuorviante come Perverso e paranoico. Scritti 1927-1933 (Il Saggiatore). Dalì aveva infatti messo al centro della sua «paranoia critica» proprio il delirio, inteso da lui in senso forte, come vero e proprio strumento di conoscenza alternativo alla razionalità deduttiva e strumentale: «metodo spontaneo di conoscenza irrazionale fondato sull’associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti».

E quale museo per questi tempi deliranti? Il Delirious Musem, risponde Calum Storrie nel suo omonimo libro, sottotitolo Un viaggio dal Louvre a Las Vegas (Johan & Levi, pp. 256, euro 25,00).

Il tema è in effetti cogente e nelle preoccupazioni ormai di molti. Il museo storico, didattico, normativo non rispecchia più tempi che ne hanno criticato-decostruito ogni aspetto, che hanno prodotto opere non museificabili, che hanno individuato nuove complessità, che della storia hanno una visione pluristratificata, che nell’onnivorità dell’archivio tecnologico hanno trovato un’altra forma, che nell’immersività virtuale hanno aperto nuove esperienze. Come esporre una performance in una sala di museo? E davvero le arti visive sono messe tutte sullo stesso piano? E come la mettiamo con la «cultura visuale»? Oggi è già difficile avere un’idea di che cosa sia arte e che senso e ruolo abbia nella società dell’immagine, figuriamoci immaginare un museo che ci faccia fare i conti con tali questioni.

Dunque, quale museo rappresenterebbe la visione attuale dell’arte? Calum Storrie non entra tanto nel dibattito quanto va direttamente allo scopo: inventiamoci un museo del genere almeno nella mente, o sulla carta, nel duplice senso del libro e della mappa: esempi, microstorie, selezioni, percorsi, veri e propri itinerari, con la libertà che è propria del delirio.

Nel tempo e fuori dal tempo

Che cos’è il Delirious Museum? «È al tempo stesso qualcosa di costruito e di non costruito. È intrinseco a taluni edifici e musei, ad alcune opere d’arte e a certi spazi cittadini non pianificati, è nebuloso e sfuggente. È un’idea parassitaria che si è insinuata nel tessuto delle città, nelle pratiche e nei frammenti urbani, ovvero nello spazio. Ma lo si individua anche nelle narrazioni, nel tempo e fuori dal tempo – in frammenti immaginari, aneddoti storici e dettagli quasi dimenticati». È appunto quanto Storrie mette insieme nel suo libro. È un architetto, un curatore e designer di mostre, e perciò anche nel libro di questo si occupa. La parte centrale è proprio un Museo Delirante immaginato, con tanto di piantina e di percorso illustrato come fosse reale. Al suo interno una ricostruzione delle tappe fondamentali che hanno portato all’idea: dalle poetiche scatole di Joseph Cornell alle più audaci critiche istituzionali dell’opera-museo di Marcel Broodthaers, alle intrusioni decostruttive di Fred Wilson o Hans Haacke o Mark Dion, ai musei reinventati di Barbara Bloom, Ilya e Emilia Kabakov, passando anche per gli esperimenti pop del Mouse Museum di Claes Oldenburg a forma di testa di Mickey Mouse e delle Time Capsules di Andy Wharol, e per quelli Fluxus scanzonati e dissacratori, di Daniel Spoerri, la galleria nel cappello di Robert Filliou. È una storia trasversale, o forse addirittura varie storie nella storia, come vari musei nel museo: stratificazioni, attraversamenti, aggiramenti, sgambetti, deviazioni.

Punto di partenza, la Gioconda

I capitoli che hanno preceduto questo Delirious Museum immaginato hanno in effetti introdotto le nozioni e i riferimenti storici e teorici più ricorrenti di questa visione: il furto della Gioconda fa da significativo punto di partenza, un vuoto, un’assenza, un buco lasciato – per sempre, sottolinea Storrie – nel cuore del museo, anzi dell’Ur-museo; quindi ogni contaminazione, o comunque apertura, mescolamento, attraversamento del museo con altro: la strada innanzitutto, nel più importante dei rovesciamenti, quello tra dentro e fuori, interno e esterno; ma anche gli spazi sociali, i grandi magazzini, i passages, naturalmente, le vetrine, i pub, luoghi di una città che si fa porosa da un lato e onirica dall’altro, e percorsa da movimenti, flussi, vagabondaggi – il flâneur, naturalmente – e derive; con i rispettivi riferimenti, da Baudelaire ai surrealisti, da Benjamin ai situazionisti, e quelli prettamente artistici, dagli spazi espositivi progettati da El Lissitzky all’affastellato Merzbau di Kurt Schwitters, agli allestimenti espositivi di Marcel Duchamp e di Frederick Kiesler.

Il museo è dunque «esploso», spargendo frammenti ovunque e frammentandosi a sua volta, sono esplosi i sistemi di classificazione come sistemi di controllo, di irregimentazione, di strumentalizzazione.

L’altro nucleo forte del libro è composto da vari capitoli dedicati a percorsi reali in grandi città del mondo, un museo-città, diffuso e aperto: «Ogni città è per certi versi un museo delirante», e d’altro canto, esplicitamente: «Il museo che esaminerò presenta elementi di continuità con la strada e aspira alla condizione della città: il mio obiettivo è restituire il museo alla città e viceversa».

È certamente la parte più interessante del libro, la più accattivante, di piacevole lettura come una guida turistica colta. Storrie ci accompagna con dovizia di dettagli e aneddoti e spunti in percorsi particolari, reinvenzione delle «mappe psicogeografiche» situazioniste, non oggettive cioè ma dirette da una motivazione psichica, emozionale o concettuale.

Qui il filo rosso, filo di Arianna nel labirinto del delirio, è il legame tra museo e mausoleo, intrecciato a quello tra vita e morte: «collegare una tomba alla casa-museo del suo occupante». Sir John Soane è il nume tutelare, il primo ideatore di un museo delirante totale, architettonico e insieme esistenziale. Poi ci sono i cimiteri di Parigi, ci sono le architetture espositive di Carlo Scarpa e certi progetti trascurati di Le Corbusier come l’incredibilmente semplice ma delirante (di «delirante impossibilità») progetto di «Museo a crescita illimitata», naturalmente ma genialmente a spirale, tutto da paragonare al Guggenheim di Frank Lloyd Wright, collegato invece al panopticon piuttosto che alla volontà enciclopedica, e quelli di Daniel Libeskind.

Da Londra a Parigi, poi in Italia, poi a Berlino, per passare negli ultimi capitoli a Los Angeles, Las Vegas e New York

Infine che cosa abbiamo? A proposito di Las Vegas Storrie parla di «deriva tra spettacolo, situazione e storia», e forse è il centro della sua stessa operazione, sono i termini inevitabili e inesorabili al cui interno ci dobbiamo muovere oggi. In fondo quella di Storrie è una risposta importante: non c’è museo – oggi, ma da tempo – senza il suo delirio, la sua parte già in situazione, aperta, esterna, labirintica, dove, forse, lo spettacolo, così come la storia, sono rimesse in gioco nel legame con la vita e la morte.