Se nel mondo (r)esistono figure assimilabili agli antichi aedi, come i griot dell’Africa occidentale sub-sahariana o i bardi della Serbia – gli ultimi in Europa -, l’arte di raccontare storie (storytelling) costituisce un valore anche laddove il progresso tecnologico ha ampliato la funzione mnesica delle parole «cantate» o scritte. Nelle sue forme evolute, lo storytelling è una pratica di grande attualità e quello dello storyteller un mestiere indispensabile ai fini della trasmissione della memoria collettiva e del nutrimento culturale delle comunità.

IN TALE AMBITO, un ruolo rilevante è svolto dai musei, istituzioni al servizio della società, che nel duplice compito di custodire e tramandare – in armonia con la definizione di museo elaborata nel 2007 dall’International Council of Museums (Icom) – hanno il dovere di comunicare «le testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente».
L’uso massiccio delle nuove tecnologie e dei social network ha dato un’ulteriore spinta in questa direzione, favorendo la metamorfosi dei musei da «contenitori di opere» a «disseminatori di storie». Un gruppo sempre più cospicuo di studiosi attivi nel campo dei beni culturali riflette dunque all’elaborazione di strategie comunicative orientate alla «democratizzazione» del sapere e alla fruibilità, non più culturalmente elitaria, delle risorse museali.
I musei e le forme dello storytelling digitale (Aracne, pp. 308, euro 28) di Elisa Bonacini – volume accolto negli studi di semiotica dell’arte promossi dall’Università Iuav di Venezia – offre una panoramica esaustiva delle tipologie di storytelling utilizzate nei musei, allo scopo di attrarre e «fidelizzare» pubblici diversificati. Non secondariamente, lo storytelling dovrebbe puntare oggi a stimolare la partecipazione delle «comunità patrimoniali»: a quest’ultime, la Convenzione di Faro – ratificata dall’Italia lo scorso settembre con quindici anni di ritardo dalla sua emanazione – accorda infatti un ruolo attivo nella gestione dell’eredità culturale.

BONACINI, archeologa e ricercatrice impegnata nella valorizzazione digitale del patrimonio, individua quattordici «modelli» di storytelling digitale, alcuni dei quali si suddividono in ulteriori categorie. Ne risulta una trattazione corposa, condotta con rigore scientifico e sostenuta da una ricca bibliografia. Una generosa sitografia si trova invece in appendice ai singoli capitoli. Ciò che preme all’autrice non è solo delineare le caratteristiche di ciascuna tecnica – da quelle più note della Realtà aumentata e della Realtà virtuale a un fenomeno in piena espansione come la gamification (ludicizzazione, ndr), fino a progetti complessi che combinano storytelling visuale e esperienze immersive -, ma anche fornire al lettore strumenti di critica per valutare l’impatto educativo di tali applicazioni. Se il libro può considerarsi un’antologia di buone pratiche su scala internazionale – che ha, inoltre, il pregio di segnalare piccoli musei innovativi nell’approccio comunicativo -, nondimeno l’autrice contribuisce ad alimentare il dibattito, particolarmente opportuno in tempi di pandemia, sulla responsabilità sociale e politica dei musei.

LA PROPOSTA CHE EMERGE dal saggio di Bonacini è un indispensabile passaggio dai «musei di collezione» ai «musei di connessione». Lo storytelling, attraverso la sua componente emotiva e cognitiva da una parte e tecnologica dall’altra, permette infatti di porre in relazione enti culturali e pubblico al di là delle barriere fisiche e geografiche, creando legami tra materiale e immateriale, accessibile e inaccessibile, scienza e conoscenza. Tale traguardo non è il frutto di prodigi digitali ma piuttosto della dote rivoluzionaria delle narrazioni che, accompagnandosi a tecnologie in continuo sviluppo, possono rendere vive e feconde le memorie del passato.
Il Centro studi per l’archeologia pubblica Archeostorie® diretto dall’archeologa e giornalista Cinzia Dal Maso – che ha all’attivo un web magazine, una rivista di archeologia pubblica in open access e due volumi sul tema dello storytelling – presenta ora Branded Podcast (Dario Flaccovio Editore, pp. 192, euro 24), «come dare voce – recita il sottotitolo – ad aziende e istituzioni culturali». Il libro, con una grafica di copertina «archeo-pop» che ben rappresenta lo spirito dell’équipe coordinata da Dal Maso, è a cura di Chiara Boracchi, archeologa, giornalista, speaker radiofonica e podcaster.

L’AUTRICE E CURATRICE parte da un assunto: malgrado nomi astrusi sfoggiati in didascalie pretenziose e respingenti di musei fermi al ’900, le storie degli oggetti e le vite di chi li ha ideati si specchiano nel presente. Per questo bisognerebbe dar loro una voce, proprio come consente di fare – in maniera coinvolgente e intima – il podcasting, tecnologia aperta di diffusione di contenuti audio tramite Internet. Ma Boracchi si spinge oltre. Considerato che, allo stato attuale, i podcast a tema archeologico e storico non generano guadagni diretti, perché non farli sponsorizzare dalle aziende? Le domande da porsi davanti a un oggetto, sia esso antico o moderno, sono infatti le stesse: chi lo ha realizzato? Di quali materie prime si compone e con quali criteri queste sono state estratte? Quale viaggio ha intrapreso un prodotto per arrivare fino a noi? Secondo Boracchi commissionare un podcast che rievochi le civiltà del passato attraverso i manufatti significherebbe, per un’impresa, mostrare il proprio impatto positivo sulla società, incidendo in modo responsabile sul futuro. Sarà utile consultare la rubrica Archeoparole su Archeostorie.it, iniziando dal podcast intitolato «Hydria – il sessismo nascosto in un vaso», per capire la verve con cui Boracchi si dedica a uno strumento che affida alla forza della voce e a un solido bagaglio di conoscenze il potere immaginifico ed empatico di un racconto.

L’ESPERTO di web marketing Giulio Gaudiano afferma nell’introduzione al volume che l’ascolto del podcast può avere uno spazio enorme nella vita di un individuo perché, a differenza dei mezzi di comunicazione imperniati sulle immagini o sulla scrittura, lascia libera la vista. L’ascoltatore, aggiunge Gaudiano, è co-creatore del contenuto «poiché la sua immaginazione completa ciò che manca alla parola». Il libro raccoglie gli interventi di podcaster e startupper di successo, i quali illustrano attraverso le loro esperienze, come si costruisce un branded podcast e i benefici, culturali ed economici, ricavabili da uno strumento che – per dirla con Andrea W. Castellanza – genera «atmosfera». Castellanza, autore assieme a Sebastian Paolo Righi del podcast Bistory, che indaga la vita di personaggi del passato partendo dalla loro morte, scommette su una risorsa ad alta portabilità, adatta a qualsiasi supporto di riproduzione e capace di far «sprofondare» l’utente nell’ambiente rappresentativo del racconto. Un po’ come succedeva (e succede ancora) nei luoghi d’arte con l’ascolto delle audioguide, che Cinzia Dal Maso definisce «dinosauri non estinti».

NEL VOLUME, spetta proprio alla leader di Archeostorie® tracciare l’evoluzione degli audio-racconti e incoraggiare l’uso dei (buoni) podcast, ritenuti il vero motore per promuovere la storia ma anche la missione sociale di un museo prescindendo dalla presenza fisica del visitatore, come accade ora durante l’emergenza sanitaria. Il podcast segna il ritorno della dimensione orale che fluttua nell’eco omerica. Ma soprattutto, come evidenzia Gaia Passamonti nel suo contributo al testo collettaneo, la costruzione di un messaggio che metta in relazione le persone simboleggia la rivincita dell’umanesimo contro l’affliggente specialismo della nostra epoca.