E’ uno scontro frontale, una battaglia campale che mette seriamente a rischio la nascita del governo gialloverde. Salvini, e con lui Di Maio, non intendono cedere sulla nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia. «Sono davvero arrabbiato», posta su Fb il leghista a fine giornata, e Di Maio aggiunge il «mi piace».

Il presidente della Repubblica, dopo un venerdì di tensione alle stelle, ha deciso di adottare una posizione altrettanto rigida. Perché per il Colle, ormai, non è più in ballo solo la nomina di un ministro, per quanto importantissimo. La partita è diventata simbolica. E’ in gioco lo stesso istituto della presidenza della Repubblica, il suo potere. Cedere, pensano al Quirinale, equivarrebbe a uccidere l’istituzione stessa. Dunque nessuna mediazione. Non è escluso che se ne riparli addirittura lunedì, quando i mercati riapriranno e il bombardamento dello spread si intensificherà.

MA IL SALVINI DEL 2018 non è il Berlusconi del 2011. Nella posizione favorevole in cui il Carroccio si è riuscito a collocare, il leader non teme elezioni dalle quali ritiene di avere tutto da guadagnare. Per la Lega la nomina di Savona resta dunque condizione imprescindibile: senza di lui nessuna fiducia al governo. M5S si schiera sempre più decisamente: «La Lega ha accettato Conte. Sull’Economia decidono loro». E poi un pentastellato messaggio, informale ma deflagrante, fatto esplodere proprio mentre al Quirinale era in corso un imprevisto colloquio tra il premier incaricato Conte e il presidente della Repubblica: «Savona non si tocca».

Sul nome di Savona l’intera crisi si incarta. Tornano a vacillare caselle che parevano ormai salde. Le ipotesi sul giuramento slittano in continuazione: dal miraggio di poter presentare la lista già ieri sera con annesso giuramento oggi si passa a rinviare tutto di 24 ore, che forse diventeranno 48 e anche di più. Ma il punto interrogativo vero non è sul quando ma sul se nascerà il governo Conte. Per quanto assurdo sembri arrivati a questo punto, dubitarne è lecito, anzi inevitabile. Se non cederà il Colle, che impugna la norma costituzionale che assegna al presidente della Repubblica il compito di nominare i ministri, e non si arrenderanno neppure Salvini e Di Maio, secondo cui contro il professore c’è un inaccettabile veto politico, il ritorno alle urne nell’arco di pochi mesi sarà inevitabile.

IN QUESTI CASI SI RICORRE di solito all’arte della mediazione. Ma stavolta lo spazio per le mediazioni pare inesistente. La carta su cui puntava il Quirinale era proprio Conte, chiamato in causa quasi esplicitamente dal «comunicato informale» con cui il Colle aveva denunciato, giovedì, il diktat dei partiti ai danni del capo dello Stato ma anche del premier incaricato. E Conte, in effetti, ci prova. Prima con Salvini, nell’incontro del mattino con i due capipartito al quale partecipa anche il pentastellato Spadafora, che entra ministro in pectore ed esce annunciando che non sarà nel governo. Conte ipotizza un ruolo di Savona nel governo, diverso però da quello ipotizzato. Cosa abbia in mente non è chiaro. Probabilmente un ruolo di rilevo al ministero ma senza la responsabilità del medesimo. Del resto l’incaricato non ha neppure il tempo di chiarire. Salvini cassa la trovata senza appello. Di Maio si associa e all’uscita esalta anzi la perfetta intesa che regna tra lui e il capo del Carroccio: «Sembra che lavoriamo insieme da sempre».

NEL POMERIGGIO IL GIURISTA ci prova anche con il capo dello Stato. Arriva a sorpresa sul Colle, discute col presidente a porte chiuse per oltre un’ora, segnala che in questa situazione non può offrire alcuna certezza su quando sarà in grado di sciogliere la riserva. All’uscita le bocche sono cucite, le “voci dal Colle” tacciono. Se c’è stato un tentativo di smuovere Mattarella non è dato sapere. Ma che sia andato a buon fine si può escludere. La Lega, a ogni buon conto, fa filtrare un messaggio che aggiunge il suo bravo carico a un quadro già complicatissimo: «Non andremo a Bruxelles col cappello in mano».

IL NODO DELL’ECONOMIA non è il solo sul tavolo di Conte. Gli altri sono meno aggrovigliati perché attengono al rapporto tra i partiti di maggioranza e non a quello con il Quirinale. Ma le modifiche alla lista iniziale che sarebbero state apportate ieri implicano cambiamenti sostanziali nella natura del governo. Il ministero delle Infrastrutture, di massima importanza strategica, passerebbe da una no Tav come la 5S Laura Castelli al leghista Giuseppe Bonomi, detto Mr. Grandi Opere. E’ come oscillare per un ipotetico ministero dell’Immigrazione tra Laura Boldrini e Giorgia Meloni e non depone a favore della lucidità d’intenti del governo nascituro. Uscirebbe poi di scena l’accorpamento tra Sviluppo e Lavoro: resterebbero divisi anche se entrambi in quota M5S. Sempre che i partiti o il Colle cedano su Savona permettendo al governo di nascere.