Muro contro muro sulle Acciaierie. Da una parte il governo Letta e il suo commissario straordinario Piero Nardi che confermano lo stop all’altoforno, ipotizzando la cassa integrazione di 600 lavoratori diretti ma non calcolano l’indotto. Dall’altra gli enti locali toscani, Regione in testa, che chiedono una volta ancora di tenere acceso l’impianto, per dare tempo alla ricerca di una soluzione che assicuri un futuro al secondo polo siderurgico italiano. Incastrato in una situazione kafkiana che Susanna Camusso racconta così: “I lavoratori di Piombino non sono vittime di un padrone malvagio che è scappato in Russia, che potrebbe essere una delle rappresentazioni, ma sono vittima della non-scelta del nostro paese se continuare ad essere produttore di acciaio, oppure se lasciare al mercato mondiale e, in questo caso anche europeo, di decidere dove si produce”.

La segretaria generale della Cgil parla di lavoro agli studenti del liceo Varchi di Montevarchi. Cerca di spiegare ai ragazzi il nonsenso di una nazione che ha bisogno ogni anno di 150 milioni di tonnellate di acciaio, ma non ha uno straccio di politica industriale per il settore. Così, ricordando la crisi delle Acciaierie di Piombino, osserva: “Quando succede contemporaneamente a Piombino, all’Ilva di Taranto, all’Ast di Terni e in qualche acciaieria del nord, ci si rende conto che non è un problema di ‘intelligenza’ del singolo stabilimento, è un problema di orientamento generale”. Che, appunto, manca del tutto.

A riprova, le ultime anticipazioni raccolte dal confindustriale Sole 24 Ore, segnalano che l’altoforno della ex Lucchini sarà spento a metà gennaio, con l’ufficiale messa in cig di circa il 30% dei lavoratori, 600 su 2.200. Gli altri, nei piani del commissario Nardi, dovrebbero lavorare i semi-prodotti stoccati nei piazzali. In attesa della cessione di una parte della fabbrica, affidata a un bando internazionale in arrivo entro pochi giorni.

In questa ottica, dove peraltro abbondano i condizionali, lo stesso altoforno subirà una “fermata” e non una “chiusura”, nella speranza di un’offerta anche per l’area a caldo. Dunque si va verso cervellotico “spezzatino” delle Acciaierie: l’inquinante cokeria, i laminatoi e gli altri reparti da un lato, l’altoforno dall’altro. E come giustificazione, il commissario Nardi continua a dire che tenere acceso l’altoforno significa perdere circa tre milioni al mese. Senza curarsi dei costi, materiali e morali, della cig di massa. Né tanto meno guardando, come osservano la Cgil e gli altri sindacati, al settore acciaio nel suo complesso.

Alla risposta degli enti locali toscani si è aggiunta ieri quella di Sel, che ha manifestato in piazza Montecitorio rendendo pubblica la lettera indirizzata ai presidenti di Camera e Senato, in cui si chiede a parlamento e governo di non fermare l’altoforno: “Sull’acciaio occorre mettere in campo elementi di vera politica industriale – osservano anche i vendoliani – cosa che manca al nostro paese da troppi anni”.