In un saggio del 1995 Susann Waldmann censiva una casistica di ritratti d’artisti eseguiti nella stagione dorata della cultura spagnola, quella compresa fra le formulazioni di Francisco Pacheco e gli stilismi virtuosi di Diego Velázquez, di Francisco de Zurbarán, di Juan de Valdés Leal. La studiosa vi raccoglieva una galleria di dipinti raffiguranti pittori e scultori, legandone gli esiti iconografici al dibattito teorico acceso allora nei milieu letterari, da Siviglia a Madrid; disponeva poi questo museo esemplare in una classificazione rigida, secondo la quale a ogni effigie veniva riconosciuto un significato in rapporto a tre principali «categorie di senso».

Nel suo parere l’ascesa sociale dell’artista, tra un lungo Rinascimento e un Barocco fulgente, è passata su suolo iberico attraverso la costituzione di diverse identità pubbliche, le quali hanno trovato un perimetro di impiego nelle strategie promozionali di un’intera corporazione di mestiere: così al profilo devoto del ‘pittor cristiano’, sbocco capziosamente morale della Controriforma europea, si sono associate le silhouettes del ‘nobile’ e del ‘dotto’, caratterizzate la prima da un’allure mondana, la seconda da un éclat accademico.

La concettosità di Velázquez

Nel contesto di un simile schema gioca un ruolo di rilievo la tensione concettosa di Velázquez, presenza defilata (e magnetica) nella tessitura cortigiana de Las Meninas. E del resto, già nella prima edizione del volume, si era conquistato la copertina l’autoritratto di Bartolomé Esteban Murillo custodito alla National Gallery di Londra, quadro baciato da un discreto successo tra i frutti della piena maturità dell’andaluso.

A fronte delle poche, dense pagine dedicategli dalla Waldmann, tale omaggio siglava il peso assegnato nel libro a un’opera siffatta, «una prova spettacolare dei pregi di imitazione e di vivacità» tipici del genere nel Seicento spagnolo.

È giusto dunque che, nella ricorrenza del quarto centenario dalla nascita, proprio quest’icona, impreziosita dagli attributi dell’attività professionale (lo stilo e la tavolozza), sia volata alla Frick Collection per essere esposta accanto all’unico, altro autoritratto certo di Murillo, quello acquistato dal finanziere statunitense nel 1904; quasi un manifesto del portato colto del linguaggio del maestro.

Il ‘dittico’ organizza il nucleo di una mostra – fino al 4 febbraio; da febbraio a maggio destinata a una tappa inglese – che concentra l’attenzione sul repertorio ritrattistico del pittore; corpus costituito da una quindicina di testimoni (documentati o riferiti alla sua mano) cui non ha arriso una particolare fortuna, sin dal pioneristico catalogue raisonné composto da Diego Angulo Íñiguez nel 1981.

Nella casa-museo del milionario americano sono pertanto riunite alcune delle ‘mezze figure’ da questi compiute, insieme appunto alla coppia di dipinti di medesimo formato cui consegnò gli studi dei propri lineamenti, scaglionati su una cronologia 1650-1670; e tale scelta – curata con freschezza di giudizio, gusto e acume critico da Xavier F. Salomon insieme a Letizia Treves – serve a documentare l’importanza di esercizi consimili, soprattutto alla luce di una qualche compattezza in fatto di opzioni compositive.

Proprio l’autoritratto della Frick, in accordo con quello di Londra, orchestra un’invenzione che presenta delle costanti nell’oeuvre di Murillo: l’ovale (inserito nell’ortogonalità del telaio), la tavolozza assai temperata, le preferenze vestimentarie di sobrio decoro, lo svago intellettualistico del paragone delle arti, esemplato nel rapporto fra traduzione pittorica del modello e supporto petroso della cornice, sia essa finta come un frammento di sapore archeologico (è il caso dell’olio newyorkese) o piuttosto acconciata nelle volute leggere di un moderno inquadramento scultoreo (il dipinto della National). Distinguono le opere tic dettati dalle fuggevoli imposizioni delle mode: così, mentre quella più antica ostenta l’uso della golilla, il colletto rigido del costume dell’hidalgo, l’altra sceglie la foggia settentrionale di una valona, frusta per la tela di panno lino candido. E d’altra parte il percorso attesta come una conoscenza di modelli aggiornati, forse stimolata dal viaggio madrileno intrapreso da Murillo nel 1658, potesse suscitare la maniera grande dell’esemplare londinese: al proposito eloquente è il confronto col prototipo raffinato del medaglione di Gaspar de Guzmán, inciso nel 1626 da Paul du Pont miscelando proposte di Velázquez e Rubens.

Tuttavia la mostra è salda nel delineare la coerenza dell’ispirazione del sivigliano: associando a questi capolavori il ritratto di Juan Arias de Saavedra e quello di Nicolás Omazur, entrambi suoi amici e collezionisti, essa conferma quanto le medesime idee in sviluppo fra sesto e ottavo decennio del secolo ne informassero ampiamente la produzione.

Camuffamenti del trompe-l’oeil

Un altro aspetto che qualifica l’inventario organico imbastito alla Frick è la tensione illusionistica infusa nelle singole creazioni: grazie agli infiniti camuffamenti del trompe-l’oeil i volti si affacciano da massicci oblò di macigno, occhieggiano dentro finestre cieche, si appoggiano a tavole o a mensoloni, cinguettano in risposta a seriose tabelle epigrafiche, invadono con la mano lo spazio dello spettatore, fissando gli occhi nelle pupille del passante distratto.

È questo un fil rouge sotteso alla selezione di Salomon e della Treves, quello cioè della «finzione» del realismo in Murillo; o per meglio dire dei dispositivi ottici messi a punto per costruire la quotidiana affabilità delle sue immagini. Si spiegano così l’inclusione di ludici intrattenimenti come il bimbo ridente, sempre da Londra, immaginato per dialogare, da tela a tela, con una fanciullina oggi in collezione privata; o il prestito delle Due donne alla finestra di Washington, ‘tirata’ drammaturgica da alcuni avvicinata alle pagine di Fernando de Rojas o al Cervantes de La ilustre fregona.

Non bisogna dimenticare quanto la riviviscenza di una corrente bibliografia murillana sia passata di recente dalle riflessioni di Victor I. Stoichita, tornato a più riprese sul soggetto cui ha dedicato pagine significative ne L’instauration du tableau del 1993; ed altrettanto importante è sottolineare che uno specialista come Benito Navarrete esca oggi con una monografia intesa per leggerne il naturalismo, celebrato da Torre Farfán e da Palomino, alla luce della teoria di Nelson Goodman, evidenziando la struttura retorica del suo «furto di realtà». Si tratta infatti della necessaria attualizzazione – in chiave di metapittura – di un lessico figurativo penalizzato da un bric-à-brac pietoso e da una seriazione sentimentale: la via per riallestire i fantasmi di un immaginario, troppo spesso ridotto a oleografia, sul tragico palcoscenico del teatro barocco, sospeso fra inganno e disinganno.