Sul finire del Settecento un giovane letterato russo attraversava l’Europa per raccontarla in forma di missive rivolte agli amici rimasti in patria. Inspiegabilmente escludendo l’Italia – meta del desiderio nelle rotte di ogni forestiero – con le sue Lettere di un viaggiatore russo Nikolaj Karamzin gettava le basi della forma romanzo, mettendo alla prova il punto di vista nazionale nel confronto con l’occidente. Più di un secolo dopo, alla vigilia della prima guerra mondiale, la tappa mancata da Karamzin diventa oggetto di un resoconto altrettanto memorabile, che a quell’opera idealmente si riconnette per farsi breviario del pellegrinaggio nella terra della bellezza inverata.
Uscite nel 1911-1912, Immagini dell’Italia di Pavel Muratov costituiscono un capolavoro indiscusso, ora portato all’attenzione del lettore italiano in forma integrale. L’opera – prismatica e caleidoscopica, a suo modo romanzo (o poema) di un russo in Italia – viene proposta da Adelphi col primo dei due volumi di cui si compone, corredata di un saggio di Katja Petrowskaja e di una postfazione di Rita Giuliani, oltre che di un corposo apparato di note: Immagini dell’Italia I Venezia – Verso Firenze – Firenze – Città toscane («Biblioteca», pp. 465, 18 illustrazioni a colori, euro 32,00).
Nelle diverse centinaia di pagine, che si divorano senza un filo di noia, guidati da splendide riproduzioni pittoriche, Muratov ripercorre tragitti ben noti a ogni protagonista del Grand Tour ma relativamente sconosciuti ai suoi connazionali, in ogni città mettendosi in ascolto dello spirito che vi aleggia, sedimentato nei luoghi e scritto nelle fisionomie, curioso degli ozi come dei rituali che compendiano la libertà e l’amore per la vita di un popolo tanto distante dal suo. Con un vivo senso del presente e del valore di testimonianza che il suo passaggio assume agli occhi dei conterranei, ma anche in dialogo costante con i tanti lo hanno preceduto (da Vernon Lee a Walter Pater, da Philippe Monnier a Bernard Berenson). L’espediente epistolare è sostituito dai panni dell’esperto d’arte, quale Muratov era, ma la postura karamziniana di viaggiatore «con un libro in mano» è la stessa, nel confrontare tele e sculture con le aspettative letterarie, perfino riesumando esclamativi «sentimentali» che epitomizzino lo stupore dinanzi alle visioni più sorprendenti.
Sono immagini a tutto campo, queste sue dell’Italia, in cui chi scrive convoglia nello sguardo al paesaggio una porzione significativa del suo senso estetico, e stempera il rigore dello storico d’arte nella contemplazione della «grazia trepidante» di cui si riveste l’esistenza di certi luoghi. Non percorre solo in lungo e in largo la penisola, ne sfoglia le epoche, attratto dalle tracce della storia, dai fini comuni oltre che dal genio individuale.
Intento a travasare l’incanto che suscita in lui lo spettacolo naturale o artistico, Muratov produce pagine traboccanti di poesia, in cui il taccuino del viaggiatore si fa tavolozza di artista, e la cornucopia di capolavori mostrati «dal vero» allo sguardo dei russi diventa scrigno narrativo tempestato di intrecci. L’idea del soggiorno in Italia come capace di espandere la creatività senza distinzione di mezzi espressivi si incarna in una scrittura pittorica, tattile, densa di suggestioni antiche, che la traduzione di Alessandro Romano valorizza e illumina nella sua grana pastosa e opalescente. Le impressioni generate dalla visita a chiese e pinacoteche si rispecchiano nella miriade di fonti snocciolate a ogni passo, e le «vicende spirituali» che stanno a cuore a Muratov diventano degne di squarci letterari a tutto tondo.
Così la sua Firenze è raccontata con un respiro da novella di mistero, gli affreschi di Pontormo nella villa dei Medici di Poggio a Caiano – le cui «forme michelangiolesche prefigurano Blake» – gli suggeriscono una riscrittura della storia torbida e struggente di Bianca Cappello, i ritratti di Bronzino sono pretesto per narrare i misfatti dei Medici, magistralmente inglobandovi i drammi di John Webster. Di Casanova, «viaggiatore indefesso, coperto dalla polvere di tutte le strade», sbalza un’effige indelebile, sanguigna e ammirata, che campeggia nelle pagine dedicate a Venezia: Muratov ne riannoda le gesta affidandosi a stralci delle sue Memorie, si sofferma sulla silhouette dell’ineffabile Henriette, ripercorre i momenti in cui la sua traiettoria di «uomo del Rinascimento smarritosi nel Settecento» si incrocia con la corte russa.
Studiando le tempre e gli umori degli artisti prescelti come suoi «personaggi», Muratov assembla un arazzo iridescente di profili in cui restituisce il sapore dell’Italia affidandosi a lunghi passaggi attinti dagli strati più diversi del nostro patrimonio letterario: volge in russo brani delle Memorie inutili di Carlo Gozzi come dagli annali di anonimi cronisti o dalle Vite del Vasari, riporta scritti di Lorenzo il Magnifico e terzine dantesche, cita Boccaccio e Leonardo. Se il destino delle Immagini dell’Italia fosse stato più felice – Muratov è ufficialmente un emigrato dal 1922, e dopo un’edizione berlinese nel 1924 il libro sarà ripubblicato in Russia solo nel 1993 – avrebbe immesso nella prosa russa del suo tempo un corposo repertorio di storie e atmosfere, un alito di multiforme vitalità.
Le costanti su cui si fissa lo sguardo del critico d’arte sono le stesse che guidano la mano dello scrittore: è attento al movimento di cui partecipano le figure di una composizione e all’armonia delle proporzioni, coglie i guizzi di luce che palpitano nelle vedute e studia l’energia vitale che trascorre nelle sculture. Con un debole per «le creature più enigmatiche» e «le ombre più diafane», per «i significati arcani» riposti nelle cose: a tratti la scrittura dell’autore dei Racconti magici (1922) rimuove i confini tra biografia e leggenda, vira verso l’inesplicabile, e Muratov fantastica altrettanto spesso di quanto non discetti d’arte.
Nella sua fisionomia odeporica e autobiografica, il libro è sempre metaletterario: i realia da viaggiatore non spariscono ma sono funzionali al tratteggio del bozzetto, in un inesausto gioco di rimandi tra letteratura, viaggio e arte. Parlare delle locande malfamate in cui trovare riparo per la notte a Ravenna gli serve per evocare Don Chisciotte, e aprire scorci in cui il pittoresco è di seconda mano, ripreso dalle ombre dell’«indimenticabile hidalgo». Le digressioni più personali si fanno strada in fondo a passaggi cruciali: quando il colpo d’occhio su Firenze ammirato da San Miniato gli fa credere di essere sulle orme di Dante e desta in lui «un senso di prossimità alla bellezza più sublime», o quando, nel chiudere la nota su Bologna, ravvede nello spettacolo di burattini «la tipica serietà degli italiani, che nello svago sono seri proprio come bambini».
Muratov sa bene che è il suo essere russo (non meno che eruditissimo storico dell’arte) ad assicurargli un posto speciale nel pantheon dei forestieri illustri in viaggio sul suolo italico, ma non ne abusa mai: centellina i tocchi di patrio colore limitandoli ai momenti in cui avverte con forza il «dissimile», se ne ricorda per illuminare fortunose convergenze (la storia di Lucca riverberata nell’attacco di Guerra e pace) o quando gli tornano in mente tutt’altri tragitti, in slitta, d’inverno. Questo primo volume si apre con la visione di Venezia, le cui acque lagunari appaiono ai russi alla stregua di «autentiche acque letee», e si chiude con il racconto di Siena, quintessenza di tutto ciò che «fa palpitare il cuore»: Muratov assembla le Immagini non diversamente da quanto fa con i suoi frammenti di marmo di varie tonalità di verde di Prato, «da riguardare in patria» per resuscitare la memoria di quell’inebriante viaggio.