Chissà qual è l’effetto che suscita, oggi, ai turisti stranieri la visita nel Bel Paese. Forse non molto diverso da quello che può avere su un italiano l’esplorazione delle terre straniere? O magari c’è un quid più specifico, più legato all’Italia e solo a lei consustanziale? Certo è che si fatica molto a calarsi nei panni dei viaggiatori dei secoli passati, e provare a cogliere il loro stupore, la loro meraviglia di fronte ai paesaggi campestri o urbani italiani.
Leggere il secondo volume delle Immagini dell’Italia che Pavel Muratov pubblicò nel 1912, edito da Adelphi (a cura di Rita Giuliani, trad. di Alessandro Romano, pp. 311, euro 25,00, 20 ill. a colori), costituisce una sorta di ideale risarcimento di quelle emozioni. Se il primo volume, pubblicato dalla stessa casa editrice milanese nel 2019 (e recensito su questa testata da chi scrive), era dedicato all’Italia del nord e centrale, in questo secondo la parte del leone è riservata a Roma. La Città Eterna, dove Muratov avrebbe scelto di riparare dopo aver abbandonato la Russia al principio degli anni venti del Novecento, aveva stregato lo storico dell’arte russo sin dalle prime visite negli anni dieci. Attraverso le sue pagine si riesce a cogliere «il sentimento di Roma» (così s’intitola il primo capitolo), cioè quella malìa che coglie i visitatori una volta superato l’iniziale shock della capitale. Poco a poco, dal disordine, dal traffico, dal frastuono, si fa largo questa magia, il ‘sentimento’, per l’appunto, che avviluppa Muratov e il suo lettore; qualcosa che «pervade l’anima ma sfugge alla coscienza».
A mettere a paragone i grandi resoconti di viaggio degli scrittori precedenti (basterà citare, pars pro toto, i ricordi dei soggiorni romani di Goethe, che poi confluiranno nel suo Viaggio in Italia), e a voler cercare comode etichette, bisognerà dire che dalle pagine di Muratov si colgono assai bene aspetti che smarcano il libro dal carattere di ‘diario di viaggio’, e lo avvicinano a una sorta di ‘guida sentimentale’. A sfilare sotto gli occhi di un viaggiatore estasiato sono sì i monumenti, ma nel loro carattere stratificato, di sovrapposizione del tempo sulle loro pareti, sui decori. L’inestricabile insieme di antico, rinascimentale, moderno che pervade i luoghi, le vie, le piazze, attrae lo scrittore e polarizza la sua pagina.
Ma Muratov è anche un osservatore critico: spesso, per esempio, nel caso delle campagne edilizie d’epoca umbertina, sottolinea l’orrore dei risultati. La supposta ‘modernità’ che sopravanza, distrugge e rimpiazza le stratificazioni secolari. «La febbre edilizia sembra una malattia cronica della nuova Italia dei parlamenti e delle municipalità»: da allora pare non sia mutato nulla, se non in peggio.
Per dipanare le diverse epoche, conglomerate e fuse fra loro, Muratov organizza i materiali in ordine grosso modo cronologico. Così, a partire dalla Roma antica, si passa via via a quella cristiana, a quella quattrocentesca – incarnata in quel grande protagonista del rinnovamento delle arti sotto Sisto IV che fu Melozzo da Forlì –, per giungere a quella cinquecentesca e barocca. Una lettura, quella della grande stagione della Roma barocca, che dichiara il proprio debito verso le teorie di Heinrich Wölfflin. È soprattutto alla Klassische Kunst, il volume dedicato al pieno Rinascimento pubblicato nel 1899, che guarda Muratov. Le idee di Wölfflin circa il Cinquecento, come il fondamentale legame tra pittura e architettura, o l’importanza di Michelangelo quale apripista per quello che all’epoca era considerato il Barocco, transitano nelle pagine dello scrittore russo con leggerezza, senza il piglio dello studioso intenzionato a prender posizione pro o contro. Proprio il volume del 1899, fra l’altro, sarebbe stato tradottoin Italia, da Sansoni, solo nel 1941, cioè in un momento in cui era già piuttosto alto l’astro di Roberto Longhi.
In un certo senso sorprende incontrare in Muratov il meglio degli studi che, all’altezza del 1912, s’aggiravano per l’Europa. Così, a proposito del rapporto tra antico e tardoantico, il punto di riferimento sono le ricerche di Franz Wickhoff. O, ancora, per il Barocco romano, spende il nome di Cornelius Gurlitt e Konrad Escher, oltre al già ricordato Wölfflin. La data in cui si affacciano queste considerazioni va tenuta ben presente: nel 1912, infatti, dedicare più spazio al Barocco che al pieno Rinascimento non era per nulla scontato. Muratov deve dichiararlo apertamente che quella «è un’epoca degna di attenzione e interesse». A chiudere l’ampio capitolo su Roma sta Giovan Battista Piranesi, che incarna, agli occhi del viaggiatore russo, l’esempio di artista che si trova a operare in un contesto ormai lacerato, in cui «la collaborazione tra arte e natura era venuta meno». Attraverso le proprie incisioni Piranesi riuscì a restituire ancora una volta quel ‘sentimento’ che era, però, ormai fatto nostalgia, ricordo di un passato – pur recentissimo – che si sgretolava e spariva, il «pathos della devastazione» come lo definisce Muratov.
Una volta lasciata la capitale, per il viaggiatore è d’obbligo una visita alla Campagna romana, cioè quei luoghi come Frascati, Tivoli, i Castelli, che sono, allo stesso tempo, vicini fisicamente ma assai distanti da Roma. Immediatamente nella scrittura si fa largo un cambio di dettato, che lascia spazio alla descrizione della vegetazione, delle colline, dei resti delle antichità. Grande spazio è riservato a Villa Adriana, infatti, e alle sue meraviglie. Così come nell’ultimo paragrafo Muratov si concentra sulla speciale predilezione che, per questi luoghi, ebbero i pittori di paesaggio, fissando con olio e pennello la «maestosità» della Campagna, che pare essere lì proprio in attesa di un artista che la ritragga (su tutti Poussin e Lorrain).
Dopo la visita ad alcune cittadine laziali (da Olevano a Viterbo, da Subiaco a Ostia, da Cori a Palestrina, da Ninfa a Bracciano) la rotta prosegue verso Napoli e la Costiera Amalfitana. Attraverso l’affollamento di via Toledo, descritto con amore dei particolari e gusto del dettaglio, Muratov delinea un quadro assai vivido del carattere della vita napoletana, frenetica e calma al tempo stesso. Se le pagine dedicate alla capitale partenopea paiono tutto sommato un po’ più stereotipate rispetto al resto, vera gemma sono le lunghe soste tra Pompei, Paestum, Ravello e Amalfi, da cui filtra tutta la meraviglia per il paesaggio sospeso tra cielo e mare. Gli scorci offerti a chi decida di scalare il dislivello che separa Ravello dalla costa, che già avevano incantato Ferdinand Gregorovius, conquistano Muratov.
In queste pagine, così come in quelle che chiudono il libro, dedicate alla Sicilia, grande spazio è riservato alle vestigia greche, ai templi di Paestum e di Agrigento, alle metope di Selinunte, all’antichissimo passato che vide i coloni insediarsi nella Magna Grecia e dar vita e forma a un paesaggio del tutto peculiare. Dall’«Etna selvoso» di cui scrive Teocrito, nell’idillio dedicato al lamento di Polifemo, Muratov volge il proprio sguardo al terremoto che appena pochi anni prima aveva raso al suolo Messina e inferto gravi danni a Reggio Calabria. A rileggere oggi le sue pagine non può non colpire quanto, nel bene e nel male (ma soprattutto nel male), sia rimasto identico a se stesso tra le vie e i borghi dell’Italia, attraverso la speculazione edilizia, l’incuria, il turismo mordi-e-fuggi.