Il Museo Historico Nacional di Rio de Janeiro è un concentrato di trecento anni di storia del Brasile. C’è di tutto all’interno, salvo non trovare in nessuna sala e in nessun oggetto presente anche un pure vago riferimento alla dittatura. Il ventennio 64-84 è come se non fosse esistito. È solo una volta usciti che se ne trova testimonianza. Sui muri che ne circondano il palazzo un gruppo di writer ha voluto rimediare a questa mancanza in maniera a dir poco spettacolare. I visitatori ne rimangono rapiti più di quanto avvenga nelle sale del museo.

L’arte dei murales in Brasile è molto diffusa. Come in tutta l’America latina, s’intende. Sono i muri a raccontare come vanno le cose, qual è il sentimento popolare diffuso e quali i nervi scoperti. Di sicuro molti artisti in questi mesi si sono fatti portavoce del malcontento diffuso rispetto a ciò che ospitare la coppa del mondo ha comportato. Jambeiro, ad esempio, è un artista molto noto e molto apprezzato. Tra le sue opere più famose e popolari ci sono murales che raccontano le imprese calcistiche della seleção. Jambeiro lo aveva già fatto nel 2010 prima della sfortunata spedizione della nazionale in Sudafrica, di celebrare l’evento con un’opera memorabile. Aveva dipinto tra Lapa e Santa Teresa i giocatori brasiliani sul bonde, il popolare tram che fino al 2011 permetteva di salire attraverso questi variopinti quartieri di Rio. Tutti i convocati più Adriano, perché da quelle parti è davvero molto amato.

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L’arte dei murales è molto diffusa in tutto il Brasile, ma attraversando questi due quartieri ci si ritrova immersi in una esposizione a cielo aperto. Se ne possono trovare di pazzeschi. E il calcio – facendo parte della cultura e della storia di questo paese – è molto spesso raffigurato sui muri della città. E proprio qui, nella nascosta travessa muratori, lunga circa un centinaio di metri, che in occasione di questo mondiale brasiliano Jambeiro ha dato il meglio di sé.

Una parete intera in cui si ripercorre l’edizione che si è svolta in Brasile nel 1950. La tragica finale persa dalla squadra di casa contro la celeste di Schiaffino e Giggia, gli «angeli dalla faccia sporca», assume un tono ancora più melodrammatico. Una partita che è passata alla storia come «o maracanaço», la tragedia del Maracanà. Più di duecentomila spettatori increduli che si sarebbero accontentati anche di un pareggio visto la formula di quell’edizione, si sono visti sconfiggere per mano di una selezione che avrebbe dovuto essere lì un po’ come un agnello sacrificale. Ed è stupefacente come Jambeiro racconti questa storia. Ci sono le due formazioni come nelle classiche istantanee che antecedono qualsiasi partita. C’è il gol di Schiaffino che a dieci minuti della fine spegne i sogni della seleção e di un paese intero. E c’è lo scoramento che ne consegue. Sono le uniche parti della parete dipinte in bianco e nero e che riportano magicamente a quell’epoca. E poi riprodotto il manifesto ufficiale di quell’edizione e l’immancabile panoramica di Rio de Janeiro. Col Maracanà che spicca su tutto, cuore pulsante dei sentimenti dei carioca. Un dolore che da un lato mostra una ferita ancora aperta, la prima vera tragedia nazionale, e dall’altro mostra che la vita va avanti.

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Poi Jambeiro lascia un ultimo regalo, ossia come immagina dovrebbe essere il mondiale 2014: con meno ingerenze politico finanziarie e più spazio alla passione e alla gente. Neymar calcia una pallone che non è altro che la testa di Joseph Blatter, il potente «padrone» della Fifa. Tutto attorno tifosi che rivendicano le istanze che chi manifesta contro la Copa rivendica.

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Inutile dire che non è solo spettacolare, ma è proprio un veicolo comunicativo potentissimo quello di mescolare arte, creatività e colore, tanto colore, alla realtà di tutti i giorni. Praca da Republica, ad esempio, è di fatto uno snodo per la viabilità della città molto importante. Un luogo tutt’altro che piacevole. Ma se non lo si attraversa a piedi, facendo slalom tra i tanti che ci vivono su quei marciapiedi, non si possono ammirare una serie di graffiti memorabili. Una parata di stelle, i calciatori che hanno fatto la storia di questo paese: Zagalo, Nilton Santos, Falcao, rappresentato, tra le altre cose, con la coppa Italia vinta con la Roma negli anni Ottanta. Poi ci sono i grandi numeri dieci: Zico e Pelè. Zico lo si incontra spesso, bisogna dirlo.

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Ma sono Garrincha, Adriano e Robinho i calciatori che più volte capita di incontrare riprodotto su qualche muro. Campioni che non sono amati per quello che hanno vinto, che è comunque molto, ma per il loro modo di vivere la vita. Campioni che non hanno dimenticato da dove sono venuti. Anche i muri che costeggiano la nuova fermata della metropolitana al Maracanà sono variopinti. Un collettivo di artisti lo ha rivitalizzato, ma secondo delle direttive molto precise che vanno in controtendenza rispetto a quello che stiamo raccontando. Ogni quartiere e ogni favela ha i suoi artisti di riferimento. E soprattutto in questo momento proliferano murales che mostrano come la coppa del mondo abbia acuito una serie di situazioni molto critiche e che su tutti i muri ci raccontano degli abusi che vengono compiuti sui poveri dal Bope e dalla polizia militare. Se ci spostiamo a São Paulo notiamo che molti artisti, come Kobra ad esempio, sono diventate delle vere e proprie celebrità e gli vengono commissionati lavori imponenti su facciate di immensi grattacieli. Ma anche qui ci sono i «murales di denuncia». Proprio all’inizio dell’Avenida Paulista, infatti, una parete scura in una caustica ambientazione lancia l’allarme su quanto accade da anni nella foresta amazzonica rispetto al problema della deforestazione. Percorsa tutta, e sono diversi km, ne troviamo uno contro la caccia alle balene e per la salvaguardia delle specie in estinzione.

Molti i murales dedicati ai paesi di origine di coloro che abitano oggi il Brasile. E c’è anche tanta Italia naturalmente: dalla Levi Montalcini alle epiche immagini di chi sbarcava qui da enormi navi. A Santos, nella piccola città di mare famosa in tutto il mondo per essere la squadra di Pelè i muri parlano solo bianco e nero come i colori del club. Ci sono i campioni di ieri e quelli di oggi. A Salvador de Bahia sono la musica e la cultura africana a farla da padrona come tema principale delle opere degli artisti di strada. Anche qui non manca il calcio, comunque. A Fortaleza anche attraverso i murales si denuncia la problematica dello sfruttamento e la violenza sessuale. A Paranà quasi tutte le opere che vediamo sui muri sono legate alle vicende delle lotte per la terra e la riforma agraria. Ce ne sono di immensi; in Minas Gerais è ancora forte simbolicamente la figura di Tiradentes, il primo ribelle brasiliano. La sua testa che rotola per le ripide strade di Ouro Preto, sembrerà ogni tanto di incontrarla se percorriamo quelle strade. Di vederla al nostro fianco. I portoghesi avevano punito il suo coraggio in maniera così cruenta che dopo averlo scorticato vivo avevano pensato che far percorrere alla sua testa le strade della città sarebbe stato un buon deterrente per coloro a cui venisse in mente di mettersi contro la Corona portoghese. È solo un gioco che un artista locale ha voluto fare, quello di rappresentarla in diversi luoghi della cittadina, sempre radente al suolo, sempre in posizione diversa.

Colpisce, non c’è che dire. Anche perché forse è solo una suggestione di chi scrive ma questa testa che rotola, il ribelle che l’aveva attaccata al collo, le proteste di oggi represse militarmente… Stai a vedere che forse una relazione c’è. Quando si dice che i muri parlano: è proprio vero se si tratta del Brasile.

* Ivan Grozny, che fa parte della redazione di sherwood.it, ha appena pubblicato con Mauro Valeri (responsabile dell’osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio) il libro «Ladri di sport – Dalla competizione alla resistenza» (Agenzia X, euro 13). Il testo raccoglie storie e testimonianze di realtà che vanno dalle mobilitazioni anti-Fifa in Brasile alle polisportive antirazziste e autogestite in Italia, dalle lotte contro la discriminazione allo sport praticato dai richiedenti asilo. «In un momento in cui lo sport, e in particolare il calcio, è sempre più un affare miliardario, in diverse parti del mondo esistono forme di resistenza sportiva attuate da persone che non possono o non vogliono far parte dello spettacolo. Recuperando e reinterpretando lo spirito originario del gioco, lo sport viene inteso e praticato come un bene comune, come la condivisione di vittorie e sconfitte senza rincorrere gli apici delle classifiche».