Forse per ragioni di prossimità geografica, spesso si pensa al Sessantotto come a un fenomeno essenzialmente europeo. Le immagini degli scontri di Valle Giulia o delle barricate del maggio francese sono diventate simbolo di quell’epoca, eclissandone altre più periferiche ma non meno significative. I moti di protesta che caratterizzarono quegli anni non investirono, infatti, solo il vecchio continente e gli Stati Uniti, interessarono invece diversi paesi del mondo tra cui il Giappone, dove la saldatura tra i vari movimenti di lotta studentesca produsse un evento che fece epoca: l’occupazione durata diversi mesi dell’Auditorium Yasuda, cuore simbolico dell’Università di Tokyo, e il suo turbolento epilogo con l’intervento della polizia, nel gennaio 1969.

Una voce del dopoguerra
L’anno prima, ancora a Tokyo, il 21 ottobre la zona di Shinjuku era stata teatro di disordini tra i manifestanti contro la guerra in Vietnam e la polizia, portando a oltre settecento arresti. La stazione di Shinjuku rimase un punto di riferimento per la controcultura giapponese: per diversi mesi, tra la primavera e l’estate del 1969, vi furono raduni spontanei di massa nel piazzale sotterraneo dell’uscita ovest con comizi e concerti delle «brigate folk» (folk guerrillas).

A ormai cinquant’anni da quegli eventi, l’uscita italiana di 69 Sixty Nine di Murakami Ryu (Atmosphere, pp. 200, € 16,50) nella traduzione curata da Gianluca Coci ci restituisce l’atmosfera di quell’epoca. Meno conosciuto in Italia rispetto all’ «altro» Murakami di cui è quasi coetaneo, Ryu è uno tra i principali scrittori giapponesi contemporanei e tra le voci più originali della generazione nata nel dopoguerra.

Scritto nel 1987

Murakami racconta il 1969 dalla prospettiva decentrata di un adolescente di una città nell’estremo sud del Giappone, a più di mille chilometri da Tokyo. In un momento storico in cui «imperava la tendenza tutt’altro che disinteressata a bollare gli studenti che sgobbavano per gli esami d’ammissione all’università come servi del capitalismo», il protagonista Kensuke (detto Ken) all’ultimo anno di liceo, mobilita i suoi compagni per organizzare la propria personale protesta contro il sistema educativo.

Il romanzo potrebbe svilupparsi come il racconto di una lotta epica dell’individuo contro la società se non fosse che Ken è, in realtà, un antieroe, con una carriera scolastica in continuo peggioramento e una inveterata propensione a mistificare la realtà. I suoi continui riferimenti ai connotati ideologici della propria generazione sono in realtà un bluff, frutto della sua conoscenza superficiale spacciata per cultura rivoluzionaria. Allo stesso modo, il suo atteggiamento ribelle è quasi unicamente finalizzato a fare colpo sulla bella compagna di scuola Matsui Kazuko, detta «Lady Jane».

Quello alla canzone dei Rolling Stones è soltanto uno dei moltissimi riferimenti alla musica rock che attraversano l’opera, figlia della frattura che negli anni Settanta portò alla ribalta una nuova generazione di scrittori tra cui Murakami Haruki, Takahashi Gen’ichiro e lo stesso autore. Scanzonato romanzo di formazione, il cui tono goliardico è accentuato da espedienti grafici che l’edizione italiana restituisce fedelmente, Sixty Nine lascia comunque trasparire, attraverso i personaggi secondari, alcuni dei punti nodali del Giappone postbellico: la distanza non solo fisica ma culturale tra il centro e la periferia del paese, il problematico rapporto con la responsabilità di guerra e la crisi di un sistema di valori incarnati dalla generazione nata prima del conflitto.

Scritto nel 1987, quando ormai il Giappone era entrato in una fase di consumismo alimentato dalla bolla speculativa, il romanzo guarda con nostalgia a quel «qualcosa di cui erano intrisi quei tardi anni Sessanta» che faceva sentire l’autore e i suoi compagni «liberi, non condizionati da valori codificati». Una stagione salvifica ma destinata inevitabilmente a sfumare con l’ingresso nell’età adulta.