Nel segno della pecora si chiudeva con una richiesta dell’io narrante al barista cinese Jay: «vorrei che ci mettessi un jukebox e un flipper, qui». Era il 1982 e Murakami Haruki era al suo terzo romanzo. Il protagonista, dopo svariate peripezie, aveva offerto a Jay un utile cospicuo quanto «illecito» guadagnato insieme al Sorcio, con la proposta di amministrare il bar con una società a tre solo di nome, «senza dividendi né percentuali». Unici desideri il jukebox e il flipper. Queste scintillanti e sonore macchine di svago avevano accompagnato le numerose birre del protagonista e del Sorcio, che si erano conosciuti, ventenni, proprio nella prima sede del bar di Jay – un seminterrato. Policromie e sonorità del jukebox e del flipper, col loro portato giovanile, evocativo e nostalgico – epocale, diremmo –, arrivavano direttamente dai primi due romanzi di Murakami: Ascolta la canzone del vento del 1979 e Flipper, 1973 del 1980, prime due tavole del trittico chiuso dal più lungo e articolato Nel segno della pecora. I due co-protagonisti erano gli stessi: la voce narrante, di cui non conosciamo il nome, e il Sorcio. Erano però più giovani e nel pieno della loro educazione alla vita – solo in parte sentimentale –, ciascuno impegnato, quanto possibile, a tentare di conoscere se stesso, a presentire un avvenire dai contorni incerti, a chiedersi cosa resta dopo la cremazione – forse «nemmeno un osso» –, a trasformare il tempo vivo (ma è mai vivo davvero?) in tempo morto. Quello, appunto, che nell’«angolo in penombra in fondo al bar» si può ammazzare «giocando a flipper – un rottame che in cambio di un certo numero di monete ti offriva tempo morto». Il loro bar preferito era quello di Jay, rilassato e saggio, paziente ascoltatore dei suoi clienti, infaticabile nel pelare patate da friggere.
Giungere ad Ascolta la canzone del vento e a Flipper, 1973 muovendo da Nel segno della pecora ci è imposto dalla storia editoriale dei romanzi, almeno da quella fuori del Giappone. Da noi, come nel resto del mondo, la trilogia è stata inaugurata dall’ultimo testo: per anni Murakami non ha voluto che i suoi romanzi aurorali, quelli in cui aveva fatto le prime prove di una scrittura allora sorprendente, non apparentabile ad altro stile giapponese, fossero tradotti. Nella versione di Antonietta Pastore, che da tempo si alterna a Giorgio Amitrano nelle traduzioni italiane dello scrittore di Kyoto, il dittico delle origini appare adesso in unico volume, Vento & Flipper (Einaudi «Supercoralli», pp. 229, euro 19,50). L’occasione è attraente per gli estimatori più appassionati e fedeli, ma è interessante per tutti, anche per chi ha parlato di postmodernismo, per chi ha discusso, a volte con disappunto, le inversioni di stile di Murakami che, dopo quegli inizi originali e spiazzanti, con Norwegian Wood, nel 1987, si è messo alla prova del realismo: ha per un po’ abbandonato romanzi dagli immaginosi sconfinamenti surreali, per sperimentare una trama dalle connotazioni introspettive, emozionali.
Se gli albori di uno scrittore celebrato e di solida carriera offrono materia preziosa, questa edizione, in particolare, è arricchita da un’introduzione d’autore, «Romanzi nati sul tavolo della cucina», tanto preziosa quanto piana e garbata, com’è usuale nelle dichiarazioni di poetica fatte da Murakami – anch’esse, sovente, brevi narrazioni. Questa premessa mette sulla buona strada: la decisione di scrivere nasce da una sorta di epifania sportiva – si pensi alla disciplina, al senso del corpo e delle sue potenzialità nell’Arte di correre –, da una felice battuta della squadra di baseball per cui tifava; il primo risultato, «scadente» e pieno di «preconcetti su come dev’essere la letteratura», viene cestinato, il secondo, intrapreso in inglese e poi tradotto in giapponese, è quello che rivela a Murakami il suo stile nuovo. Tanto era saturo delle parole e delle espressioni giapponesi, da aver scelto l’inglese, avendo a disposizione «vocabolario limitato» e «capacità modestissima». Proprio nello sforzo di rendersi chiaro in una lingua non materna, nell’occorrenza di scrivere periodi brevi, limpidi ma anche «rozzi», Murakami ha sentito nascere il ritmo che gli era «congeniale», e l’ha poi trasposto in giapponese. Un percorso che l’autore accosta a quello compiuto da Agota Kristof, che, ungherese esule in Svizzera, aveva trovato il suo stile scrivendo in francese.
La riflessione consustanziale al primo romanzo, Ascolta la canzone del vento, è quella che investe la scrittura – che cosa significhi essere scrittore, di cosa si debba o meno parlare –: il romanzo ha tratti di Bildung, come li ha Flipper, 1973, del resto, ma si apre con una dichiarazione emblematica: «Non esiste la scrittura perfetta, così come non esiste una perfetta disperazione». E prosegue con affermazioni ampiamente condivisibili: «scrivere non è assolutamente un mezzo per salvarsi, è solo un modestissimo tentativo»; «scrivere è un lavoro durissimo». Il Sorcio, d’altro canto, scrive più di un romanzo, tutti senza scene di sesso e di morte: «tanto si sa che gli uomini vanno a letto con le donne, e muoiono. Quindi che bisogno c’è di ricordaglielo con un libro?». Figura di riferimento della voce narrante è un fittizio scrittore dei primi del Novecento, David Heartfield, bislacco ma acuto, solitario e dall’edipo irrisolto, cui si devono altre asserzioni capitali: «Scrivere significa riconoscere la distanza tra noi stessi e le cose che ci circondano. Non è di sensibilità che abbiamo bisogno, ma di un righello». A ben vedere Murakami sembra usare entrambi in pari misura: sensibilità e righello, con l’aggiunta di ottime colonne sonore – si ascoltino tutte le tracce musicali e le loro posizioni nella storia –, con qualche dose di ironia e un po’ di gusto per la sorpresa, per lo sfasamento dei piani, siano temporali, spaziali, narratologici (ottime faglie strutturali la diretta di un’emissione radiofonica).
La sensibilità appare nelle descrizioni della natura – alberi, brezza sottile, mare, odori, abbandonate case di pescatori, piume di pampas, luna autunnale, brusio d’insetti sull’erba – e nella discrezione con cui sono delineati i rapporti interpersonali: le gemelle indistinguibili dolcissime e premurose che vogliono celebrare il funerale al quadro di comando delle linee telefoniche, il ricordo di una ragazza morta suicida nel bosco, lo sguardo fisso che il Sorcio tiene sull’orologio nelle ore in cui decide di non telefonare alla donna che desidera, il tono con cui Jay parla del suo gatto disabile.
Il righello, la distanza dalle cose del mondo, appare nei medesimi luoghi, ma soprattutto nelle svariate soluzioni metaforiche e nelle similitudini, numerosissime e puntuali, illuminanti, che allacciano cose tra loro lontane: per Murakami misurare è anche e soprattutto collegare, mettere in relazione e far così scaturire il nuovo. Sondare con i sensi sull’avviso: «se volessimo fare uno sforzo potremmo trarre lezione da qualsiasi cosa». Capire che «la morte a poco a poco mette radici». Non negare che «ci sono pozzi profondi nel nostro animo. E sopra quei pozzi gli uccelli volano avanti e indietro».
Di questi romanzi brevi il jukebox e il flipper non sono soltanto la campitura percettiva, sono anche attanti, piene figure narrative: memorabili per freschezza e angoscia le potenti pagine dedicate al magazzino con settantotto flipper perfettamente allineati come «salme», come «silenzi». Lì, impregnati dall’odore di polli morti, in un gelo asfittico e malato, i flipper sono un cimitero di «vecchi, vecchissimi sogni»: i disegni sbiaditi, le luci ancora sgargianti.