I numerosi sostenitori lo vezzeggiavano definendolo il “re dell’acciaio”. Gli operai della Magona e delle Acciaierie coniarono invece per lui l’appellativo, ben più appropriato, di “padrone delle ferriere”. Luigi Lucchini se n’è andato, a 94 anni, e almeno a Piombino non si piangeranno lacrime per la sua dipartita. Nei vent’anni in cui ha guidato il secondo polo siderurgico italiano sono stati assai di più i drammi, occupazionali e ambientali, e le tragedie sul lavoro, rispetto agli investimenti necessari per assicurare un futuro alla cittadella dell’acciaio. Che oggi infatti sopravvive a stento, fra multinazionali (Arcelor) intenzionate ad abbandonare la Magona al suo destino, e un commissario governativo che ha come strategia d’azione la costruzione di un forno elettrico al posto dell’altoforno. Con il conseguente sacrificio di almeno due terzi dei duemila operai delle Acciaierie. Senza contare l’indotto.

Proprio con i primi forni elettrici Luigi Lucchini aveva costruito una parte della sua fortuna. Dal primo, piccolo laminatoio per la produzione di tondini per il cemento armato, l’imprenditore bresciano aveva colto al balzo le richieste dei costruttori edili nell’Italia del boom, aumentando la produzione grazie ai forni dove si fondeva il rottame. Di lì una rapida ascesa, fino a diventare nel 1984 presidente di Confindustria e da allora presenza fissa nei luoghi del potere italiano (di volta in volta presidente di Comit, Compart e Montedison, vicepresidente di Consortium, consigliere di Generali, Eridania Beghin Say e Mediobanca, e ancora presidente del sindacato di blocco prima di Hdp e quindi di Rcs MediaGroup, ed esponente del patto di Gemina e di Mediobanca).

Con un pedigree del genere, Lucchini cala come un falco su Piombino a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, acquistando sia la Magona che le Acciaierie. Queste ultime gli vengono praticamente regalate dallo Stato. Talmente ansioso di privatizzare il pur strategico comparto siderurgico italiano, da accettare perfino la condizione capestro di un licenziamento preventivo di circa un migliaio di operai. “Di fronte a questo autentico diktat – ricorda il piombinese Alessandro Favilli, responsabile industria di Rifondazione comunista – la reazione fu immediata. Ci furono 38 giorni consecutivi di sciopero, a oltranza, e al primo referendum in fabbrica vinsero nettamente i ‘no’ a Lucchini e alla privatizzazione”.

Si rese necessaria tutta la “moral suasion” della politica e del sindacato, in una zona dominata dall’allora Pds e dalla Cgil, per far digerire alla città un industriale già noto per la sua massima “i soldi spesi per far fallire uno sciopero sono i soldi meglio spesi”. “Fra i tanti venne a fare un comizio anche Cofferati – ricorda ancora Favilli – alla fine fu indetto un secondo referendum, e questa volta vinsero i ‘si’, seppur di misura. Così furono espulsi quasi tutti gli operai della fascia di età dai 45 ai 55 anni. I più esperti, quelli che ‘sapevano fare’ in acciaieria. Da allora quel know how è andato perduto. E qui quella sconfitta operaia è stata pari a quella della Fiat a Torino”.

Di fronte alle tecnologie a ciclo integrale, ben più impegnative dei forni elettrici, Lucchini impose una strategia tesa a massimizzare i profitti. Senza guardare ai necessari investimenti per ammodernare e rendere più sicura la produzione. Non solo sul piano ambientale: le statistiche dell’Inail registrano in quegli anni una terribile impennata degli incidenti, anche mortali. Infine nel 2005, con gli impianti ormai usurati e l’altoforno rimasto uguale a quello costruito con i soldi pubblici, Lucchini vende le Acciaierie ai russi di Severstal e la Magona ai francesi di Arcelor. Più abile, e furbo, della famiglia Riva.

Il resto è storia di oggi. Mentre la famiglia bresciana si ricompra vicino casa la sola Lucchini Sidermeccanica, dopo aver messo qualche toppa agli impianti il russo Mordashow molla la baracca – a un euro – alle banche creditrici, che a loro volta passano la patata bollente al governo Letta e al commissario Piero Nardi. Che vuole spegnere l’altoforno e passare al forno elettrico. Ma i duemila operai superstiti, almeno oggi, non ci stanno.