Sami Abu Diak è spirato nella notte tra lunedì e martedì nel centro medico israeliano di Assaf Harofeh, in stato di detenzione e non a casa, con la sua famiglia, come chiedevano da settimane tante voci palestinesi di fronte al rapido aggravarsi delle sue condizioni. Abu Diak, 36 anni, ammalato di cancro, è il 222esimo prigioniero politico palestinese a morire in carcere in Israele dall’inizio, 52 anni fa, dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. «È stato curato in ritardo e male», denunciano i palestinesi. Nonostante fosse un malato terminale e versasse in condizioni critiche, spiegano, i servizi carcerari hanno impedito «fino all’ultimo che Abu Diak ricevesse visite familiari e cure idonee».

 

Originario di Jenin, nel 2002 Abu Diak era stato arrestato appena 18enne con l’accusa di essere coinvolto nell’uccisione di tre palestinesi collaborazionisti di Israele e condannato a tre ergastoli. «Porteremo il suo caso e quello di altri detenuti nelle carceri israeliane davanti alle organizzazioni internazionali in modo che Israele venga punito per i suoi crimini», ha promesso Ahmed al Tamimi, del Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Il movimento islamico Hamas ha condannato quella che ha descritto come «negligenza medica adottata come da Israele per provocare la morte dei detenuti, è un crimine contro l’umanità e una violazione del diritto internazionale».

 

La morte in carcere di Sami Abu Diak ha accesso i cortei e i raduni del “Giorno della rabbia” con cui ieri i palestinesi, mobilitati principalmente da Fatah, hanno protestato contro la recente decisione presa dall’Amministrazione Trump di non considerare più illegali le colonie israeliane costruite in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Una settantina di manifestanti sono rimasti feriti o intossicati da proiettili di gomma e dal lancio di lacrimogeni da parte dei soldati israeliani. I cortei più partecipati si sono visti a Nablus, Betlemme e Ramallah. «Abbiamo compiuto solo un primo passo, abbiamo un programma articolato su come rendere libere le nostre città», ha commentato Khaled Mansour dell’ufficio politico del Partito popolare (ex Partito comunista). Non mancano le voci critiche. «Il Giorno della Rabbia ha portato in strada gli attivisti e i ragazzi delle scuole ma non la classe media palestinese. E questo è un segnale grave», notava ieri l’attivista Bilal Jadu.

 

I palestinesi protestano contro gli insediamenti coloniali e tra i coloni serpeggia il nervosismo. Questi ultimi hanno incassato il nuovo “regalo” di Donald Trump ma guardano con nervosismo alla sorte del premier di destra e principale fautore della colonizzazione, Benyamin Netanyahu, incriminato la scorsa settimana per corruzione, abuso di potere e frode. Un’uscita di scena di Netanyahu e la possibile creazione di una maggioranza centrista dopo le probabili nuove elezioni legislative (a marzo) – il partito centrista Blu Bianco guadagna dei sondaggi dopo l’incriminazione del premier – se da un lato non lasciano immaginare cambiamenti di qualche rilievo nel rapporto tra occupanti ed occupati, tra israeliani e palestinesi, dall’altro potrebbero mettere il freno all’annessione a Israele di buona parte della Cisgiordania occupata promessa da Netanyahu.

 

Al nervosismo si richiamano alcuni per spiegare il  moltiplicarsi degli episodi di vandalismo compiuti nelle ultime settimane dai coloni israeliani a danno di palestinesi e talvolta anche dell’Esercito. Scritte ingiuriose in ebraico sono apparse ieri mattina sulle case del villaggio palestinese di Jabaa, in apparente risposta alla rimozione da parte dell’Esercito di una tenda eretta dai coloni in un uliveto fuori dall’insediamento di Bat Ayin. Ad Ayn as Sawiyah i coloni, denunciano i palestinesi, hanno distrutto circa 30 alberi di ulivo. Venerdì scorso sassi lanciati dai coloni hanno ferito una decina di palestinesi a Hebron, tra cui un bimbo di 18 mesi. Il centro israeliano per i diritti umani B’Tselem riferisce che negli ultimi due anni si è registrato un aumento considerevole del numero di attacchi contro i palestinesi da parte dei coloni.