Anelo Rizzoli, editore e produttore dai grandi successi e dai tracolli rovinosi, è morto mercoledì notte al policlinico Gemelli di Roma. Era ricoverato nel reparto di Unità intensiva coronarica, il fisico debilitato dalla sclerosi multipla, diagnosticata quando aveva 18 anni. Lo scorso febbraio la procura di Roma ne aveva ordinato l’arresto per il crac finanziario da 30 milioni di euro della Rizzoli audiovisivi, l’accusa bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale per avere provocato con dolo il fallimento di quattro società controllate. Secondo i pm nel crac è coinvolta anche la moglie Melania de Nichilo. Le sue condizioni di salute vengono giudicate compatibili con il carcere, riesce però ad evitare la cella: la stessa procura chiedere il ricovero nella struttura protetta dell’ospedale Pertini di Roma (lo stesso dove finì Stefano Cucchi).

La sclerosi lo costringere a muoversi a fatica, paralizzandogli il braccio e la gamba destra, e per non perdere la motilità ha bisogno di fare fisioterapia ogni giorno. Con gli anni poi le patologie sono aumentate (diabete, cardiopatia, insufficienza renale e altre) così dopo cinque mesi ottiene i domiciliari. «Mio marito era malato, ma questa vicenda giudiziaria lo ha sfinito» il commento della moglie.

«A dar retta ai luoghi comuni più diffusi e più reazionari, dovremmo definire Angelo Rizzoli un ‘detenuto di serie A’, che avrebbe goduto dei privilegi di rango e di censo negati ai ‘detenuti di serie B’. Si tratta di una sesquipedale sciocchezza. Il carcere certamente riduce drasticamente i vantaggi di classe e livella i diritti di tutti al gradino più basso» afferma il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani a Palazzo Madama. «Rizzoli – conclude – ha dovuto attendere quasi cinque mesi nel reparto detentivo del Pertini, senza poter ricorrere all’uso delle stampelle che gli erano indispensabili per qualsiasi movimento. Più di recente, una perizia del giudice per le indagini preliminari di Roma aveva stabilito la sua ‘compatibilità’ con il regime carcerario. Lo sappiamo: non è certo morto per quella dichiarazione di ‘compatibilità’, ma forse non sarebbe inutile tornare a riflettere su quali colossali iniquità vengono consumate nel nostro sistema penitenziario».

Duro il centrodestra. Secondo Mariastella Gelmini «il paese di Cesare Beccaria non merita di cadere così in basso», «c’è rabbia dinanzi alla tortura che un malato grave ha subito attraverso una custodia cautelare infame» rincara Renato Brunetta. Nessuno di loro, però, si è stracciato le vesti la scorsa settimana quando nel penitenziario napoletano di Poggioreale è morto a 34 anni Federico Perna, malato di cirrosi epatica, con complicanze respiratorie e circolatorie, tenuto in prigione nonostante il parere negativo dei medici (per non parlare dei segni di percosse documentati dalle foto dell’autopsia). Tuttora rinchiuso a Napoli Vincenzo di Sarno, affetto da tumore al midollo spinale. Per loro la ministra Cancellieri non ha telefonato. «La morte di Angelo Rizzoli deve essere l’occasione per intervenire senza più rinvii per la riforma della custodia cautelare. Un sistema che negli anni ha purtroppo dimostrato degli aspetti disumani» sostengono i deputati Pd Danilo Leva, Walter Verini e Andrea Manciulli.

Rizzoli è stato l’erede di un piccolo impero messo su dal nonno, che aveva cominciato dal nulla. Una laurea in Scienze politiche a Pavia, specializzazione alla Columbia University di New York, a 28 anni entra nel consiglio di amministrazione della casa editrice di famiglia. Nel 1974 suo padre Andrea decide di acquistare il Corriere della Sera: si tratta del primo quotidiano italiano ma ha un enorme indebitamento. La famiglia lo cede al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi con un’operazione coperta, facendolo entrare nell’orbita della P2. La loggia massonica infiltra tutta la redazione, lo scandalo scoppierà nel 1981 travolgendo il quotidiano e la Rizzoli: nell’elenco degli iscritti Angelo, l’amministrare delegato della Rizzoli Bruno Tassan Din e il direttore del Corsera Franco Di Bella. Angelo, il fratello Alberto e Tassan Din vengono arrestati per bancarotta patrimoniale societaria, dopo 26 anni di processi ne usciranno con la fedina penale pulita grazie alla depenalizzazione del reato. Secondo l’accusa avevano occultato, dissipato o distratto oltre 85 miliardi di lire.