Dopo il congedo dalla scrittura affidato alle «prime e ultime cose» raccontate in Uscirne vivi (2014), con Amica della mia giovinezza l’editore Einaudi e la brava traduttrice Susanna Basso («Supercoralli», pp. 310, euro 20,00) ci invitano a tornare indietro nella storia – e nelle storie – di Alice Munro . Pubblicato nel 1990, questo settimo volume raccoglie dieci racconti, tutti, con poche eccezioni, ambientati nella familiare Lake Huron County, rivisitata con lo sguardo più ponderato degli anni Ottanta.
Sono anni di assestamento, di novità e incertezze per Munro – la donna e l’artista – anche in conseguenza del divorzio e del ritorno definitivo in Ontario, dopo un soggiorno ventennale a Vancouver. Tuttavia, se il ritmo della vita riprende felicemente accanto a Gerry Fremlin, un vecchio amico di università, l’attività creativa sembra subire qualche flessione, e per la prima volta Munro avverte resistenze da parte dei redattori del «New Yorker»: la «sostanza» delle ultime storie non risponde alle levature cui ella ha abituato i suoi lettori. Ed è in parte così. La stessa Munro confesserà a un amico: «sono felice – o contenta – della mia vita ma piena di dubbi sulla mia scrittura. Voglio una certa purezza. E invece mi ritrovo con troppa tecnica».
In effetti, in questo periodo ella va rinnovando il suo materiale e riorientando la ‘materia’ della vita, mentre sembra soppesare le responsabilità personali nei rivolgimenti del suo passato più recente. La «purezza» che lei desidera non è di tecnica ma di visione; oltre che di una prospettiva adeguata a nuove complessità, o a un mondo non più limitato al guscio parentale in una geografia appartata, o circoscritto alle esperienze di una adolescente – e poi di una giovane donna – che va scoprendo la vita: una scena prolungata, con varie sfaccettature temporali, più o meno fino a Le lune di Giove (1982).
Ormai avviata verso i sessant’anni, con Il percorso dell’amore (1986) e Amica della mia giovinezza Munro allestisce un’altra scena, prende atto di un transito stagionale (e epocale), che ora esige di porre domande sugli inganni e gli errori della maturità, e sulla comprensione di un diverso ordine di accadimenti. L’artista prova a testare un nuovo territorio di situazioni ed emozioni, pervenendo, in alcuni casi, a risultati fra i più significativi della sua carriera (Amica della mia giovinezza, il racconto che dà il titolo alla raccolta, Foto del ghiaccio e Meneseteung).
Resta ferma e ammiccante sullo sfondo del suo ritorno la distesa totemica del Lago Huron, specchio familiare sin dall’infanzia, verso cui dirigere il volto e trapassarne la superficie, per scoprine ora, dopo l’erosione degli anni, i detriti lasciati dal tempo: «All’orizzonte una linea turchese, sottile, come disegnata con l’inchiostro, poi un tratto azzurro puro fino ai frangiflutti dai quali partono le onde di verde e d’argento che vanno a rompersi sulla sabbia. La Mer Douce, così i francesi avevano battezzato il lago. Naturalmente, può cambiar colore in capo a un’ora e diventare brutto, a seconda del vento e di quello che viene smosso dai fondali». L’omaggio al lago, reso dal protagonista di Arance e mele, è metatestuale.
Nell’andirivieni ondivago del tempo, il presente – la superficie ingannevole – dei racconti di Amica della mia giovinezza smuove la verticalità degli anni, setacciandola fino alla superficie per obbligare a guardare i depositi del fondale. Nella deriva dei riflessi, il prisma delle complessità umane si scompone, racconto dopo racconto, nell’analisi delle dinamiche dei rapporti interpersonali, e delle loro diverse modulazioni diacroniche rispetto ai modi dell’amore, alle ambiguità dell’amicizia, le solitudini vedovili e le gabbie matrimoniali, i richiami della sessualità e gli adulteri, le bugie e le ipocrisie. Ne risultano squarci di agnizioni fugaci o di segretezze ostinate, consegnate talvolta a una sola parola: tutto il senso di una storia in una parola, come un semplice «diversamente».
Lo sguardo è rivolto in particolare alle coppie (ma non solo): Barbara e Murray in Arance e mele, Brenda e Cornelius in Five Points, Margot e Reuel in Parrucca; Georgia e Ben in Diversamente, il racconto che pare riflettere più da vicino una cronaca autobiografica. Ma, di contro alle convenzioni del realismo, più plausibili per un tema allora emergente, alla fantasia arcana di Munro piace osservare le trasgressioni dei vecchi tabù vittoriani (sessualità, divorzio) con l’ottica della perturbabilità del «gotico», come quando fa convergere sulla figura di uno ‘straniero’, insinuatosi nel ménage famigliare, le oscurità e gli interrogativi della narrazione. Quasi che gli intrusi siano figure posticce, simulacri malevoli – il Victor di Arance e mele – funzionali tuttavia, nel mistero di cui si avvolgono, a sviare da un’accettazione dell’insondabilità dei rapporti umani. In Arance e mele è Barbara a sedurre Victor? O è Victor che insidia Barbara? C’è mai stata una tresca ai danni di Murray? Difficile saperlo, se è questo ciò che conta.
«La gente è curiosa – si legge nella conclusione a Meneseteung – Alcuni lo sono. Hanno voglia di scoprire le cose, anche le più insignificanti. E poi di collegarle. Ogni tanto li si vede girare con un taccuino in mano, ripulire le tombe dal terriccio, scorrere un microfilm, nella speranza di scoprire uno sgocciolio nel tempo, un aggancio, la possibilità di salvare una cosa dalle macerie. E può darsi che si sbaglino. Può darsi che io mi sia sbagliata». Chi parla, autocriticamente, è la narratrice del racconto, il primo che – grazie al contributo di Gerry Fremlin, storico e cartografo – Munro dedica a un nuovo interesse: lo scavo nelle radici della microstoria della regione.
Meneseteung si propone un ritratto di Almeda Roth, una poetessa pioniera – una come tante – vissuta ai tempi della colonizzazione ottocentesca dell’area del Lago Huron. Poche reliquie sostengono il progetto storico dell’anonima narratrice: una fotografia, un libro di poesie su «stelle, fiori e angeli», data di morte, e trafiletti dei giornali locali su un fatto di cronaca nera, di cui Almeda e Jarvis Poulter, un suo vicino di casa, sono testimoni. Scarsi elementi, e tanti vuoti, per immaginare le esperienze di una donna in un Canada primitivo. Eppure, cosa unisce Almeda, Jarvis Poulter e il corpo femminile sanguinante in Pearl Street? Bisogna connettere gli elementi per ricostruire una storia, che è quello che si ostina a fare l’ambiziosa narratrice. In una scena drammatica e allucinata, lo sgocciolio traboccante della gelatina d’uva, unita ad altri sgocciolii – macchie, segni impressi sul territorio della nascente nazione – si fanno, nella loro scioccante e assurda semanticità, materia che, in un guizzo epifanico, Almeda decide di «incanalare» in una poesia, intitolata Il Meneseteung, dal nome indiano del fiume che le scorre vicino casa. Anzi, pensa Almeda, «è il fiume, il Meneseteung, a essere il poema, con le sue buche profonde e le sue rapide e le pozze bellissime d’estate». Dopo la brutale avventura in Pearl Street, ella dimentica fiori e angeli, e dimentica Jarvis Poulter, mentre «affonda ancora di più lo sguardo dentro il fiume della propria mente». Più che «connettere», sembra di capire, bisogna affondare lo sguardo nel poema (il racconto), nelle pozze profonde del fiume, il Maitland River, il padre fiume della contea, o nei fondali del lago Huron.
O nei fondali di una memoria ritrosa. Munro dedica Amica della mia giovinezza al ricordo di sua madre, in segno di commiato definitivo e riconciliante, dopo le narrazioni ispirate alle durezze del loro rapporto. «Un tempo sognavo spesso di mia madre, e sebbene i particolari variassero di volta in volta, la sorpresa era sempre la stessa. Il sogno si interrompeva perché era troppo palese la speranza, troppo scontato il perdono, credo». Così inizia il racconto eponimo, il primo della raccolta, e fra i più complessi, ma orientato nella direzione di un più libero ciclo rigenerativo, sgravato, nel caso specifico, del carico colpevole nei confronti della madre, il «grumo amaro di amore», nutrito negli anni come una «gravidanza immaginaria». È la ricerca di Flora, l’amica della giovinezza della madre, e enigmatica protagonista del racconto, a incoraggiare la figlia che narra allo scioglimento del nodo fetale, fino a riconoscerlo ora come ‘amico’ e farlo confluire, e lasciarlo scorrere liberamente, nelle acque pure del Meneseteung.