Muna el Kurd aveva appena undici anni quando, tornando da scuola, ha trovato metà della sua casa occupata dai coloni israeliani. «Fuori c’erano tantissimi poliziotti, ricordo le sirene che suonavano. Mia nonna era stata portata in ospedale: si era sentita male. Lei che aveva vissuto la Nakba, che era stata cacciata dalla sua città, Haifa».

Ora di anni Muna ne ha 23 e si sta battendo per salvare quel che resta della sua abitazione: la sua famiglia è una dei 28 nuclei familiari di Sheikh Jarrah, quartiere palestinese di Gerusalemme est, minacciata di sgombero dalle autorità israeliane a favore di associazioni di coloni che ne rivendicano la proprietà.

L’abbiamo incontrata a Ponsacco, durante l’evento di Arci «Palestina calling», pochi giorni prima del suo inserimento (insieme al fratello gemello Mohammed) nella lista delle 100 personalità più influenti del 2021 redatta dal Time.

A inizio agosto la corte vi ha proposto un «accordo» con i coloni che avete rifiutato. Qual è la situazione adesso a Sheikh Jarrah?

Nell’ultima udienza il giudice ci aveva chiesto di siglare un accordo con i coloni: riconoscere loro la proprietà della terra e pagare un affitto in cambio della possibilità di restare temporaneamente nelle nostre case. Abbiamo rifiutato. Ora attendiamo la data della nuova udienza. La situazione nel quartiere è solo in apparenza calma: il mio vicino, Murad Atiyeh, è stato arrestato il 10 agosto scorso. Il governo israeliano vuole mandarci un messaggio: possiamo arrestarvi in qualsiasi momento. Murad non aveva fatto nulla, se non difendere la sua casa.

Dalla corte vi aspettate un’altra proposta di accordo?

È possibile ma non accetteremo comunque. La terra è di nostra proprietà e non cederemo nemmeno di un centimetro.

Ad aprile e maggio intorno a Sheikh Jarrah l’intera Palestina si è sollevata. Perché il tuo quartiere è stato in grado di ispirare una tale mobilitazione?

Penso si sia trattato di un insieme di cose. In quel momento sotto minaccia c’erano anche la moschea di Al Aqsa e la Porta di Damasco. A Sheikh Jarrah siamo stati in grado di usare i social media in modo molto intelligente, comunicando in modo chiaro a tutto il mondo la nostra situazione e il tentativo del governo israeliano e dei coloni di impossessarsi delle nostre case nonostante non abbiano un solo documento che gliene attribuisca la proprietà. Sicuramente un grande effetto lo ha avuto il video che ho girato a Yakub, il colono che ha occupato la mia casa nel 2009: la sua candida affermazione che quanto aveva fatto era stato un furto è l’ammissione che tutto lo Stato di Israele è fondato sulla sottrazione di terre, di case, di vite palestinesi. È stato molto onesto e rude: «Se non la prendo io, la ruberà qualcun altro», dice nel video. È stata una sorpresa per tutti: un colono israeliano arriva dagli Stati uniti per appropriarsi della mia casa. Infine un ruolo lo abbiamo avuto noi giovani, non vogliamo vivere una nuova Nakba come i nostri nonni e i nostri genitori nel 1948 e nel 1967. Queste Nakbe continue non le accettiamo più.

C’è una differenza nell’approccio al movimento di liberazione nazionale tra le nuove e le vecchie generazioni?

Noi giovani siamo stati in grado di unire i palestinesi senza il sostegno dei partiti politici. La nostra è una mobilitazione senza partiti, spontanea ma profondamente politica. Non ci siamo organizzati in gruppi né abbiamo strutturato il movimento, il movimento è nato da sé. Ne siamo rimasti sorpresi noi stessi. Di certo abbiamo imparato molto dalle esperienze dei nostri nonni e dei nostri genitori, anni di vita passati a resistere in tutta la Palestina. La nuova generazione ha lo stesso potere di resistenza ma idee diverse e nessuna paura. E soprattutto non usiamo più il linguaggio della diplomazia: chiamiamo le cose con il loro nome, pulizia etnica, apartheid, sgombero forzato, crimine di guerra. Nessuno si aspettava che noi giovani avessimo tanta consapevolezza politica e idee chiare su quello che desideriamo. Abbiamo scioccato tutti, soprattutto gli adulti.

A Gerusalemme le autorità israeliane hanno chiuso i centri culturali e politici palestinesi. Dove vi incontrate? Qual è il luogo del dibattito?

Non ci sono luoghi fisici dove vederci e discutere, ci incontriamo negli spazi aperti, nei parchi o alla Porta di Damasco. In molti quartieri palestinesi di Gerusalemme Israele ha aperto i cosiddetti «centri pubblici», ma li boicottiamo perché hanno l’obiettivo di farci accettare una convivenza senza uguaglianza, di diventare «bravi palestinesi» che amano Israele nonostante l’occupazione. Sono luoghi di normalizzazione e Israele ci ha investito molto, circa 20 milioni di shekel l’anno (quattro milioni di euro, ndr), immaginando questi centri come luoghi di una falsa integrazione, una finta inclusione capace di far cessare le proteste che ciclicamente ritornano.

In estate, dopo l’uccisione di Nizar Banat, ci sono state molte manifestazioni contro l’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania. Come avete vissuto questa repressione a Gerusalemme?

È stato scioccante. Vedere palestinesi che picchiano altri palestinesi e che uccidono attivisti è stato molto duro. Soprattutto perché è successo dopo quello che eravamo stati in grado di fare a Gerusalemme e nel resto della Palestina nei mesi precedenti. È tempo di cambiare questa leadership. Non credo in loro, sono legati all’occupazione, sono corrotti. Stiamo combattendo un’occupazione e dobbiamo perdere tempo a combattere i nostri leader.