I cittadini di Alcamo, Trapani, non hanno acqua dai rubinetti, da anni. Il servizio viene erogato a fasce orarie, come a Beirut nel dopoguerra, e utilizzando le autobotti. Costa carissimo: un metro cubo d’acqua, comprensivo di fantomatici servizi di depurazione e fognatura, costa 1,72 euro e non è neppure assicurato. Il Comune di Alcamo – ora amministrato dal giovane sindaco pentastellato Domenico Surdi – è sempre in affanno ad aggiudicare lavori di riparazione dell’acquedotto e della rete fognaria, a contrattare le forniture d’emergenza con i trasportatori privati, ma non ce la fa a garantire una erogazione decente, da paese civile. Servirebbero investimenti rilevanti, servirebbero fondi pubblici.

IL RESTO D’ITALIA non è in una situazione tanto migliore – acquedotti vecchi di 30 o 50 anni e ormai colabrodo, con una dispersione media nazionale di circa il 50 per cento anche se concentrata al Sud e una depurazione delle acque reflue che copre solo per l’11 percento delle utenze. Questa la situazione che viene fuori dal Blue Book 2017 realizzata dalla ex Federutility ora Utilitalia, l’associazione delle aziende multiulity italiane, che segnala anche come a causa dei ritardi nell’ammodernamento delle infrastrutture idriche gravi sull’Italia – e sui contribuenti – una nuova multa dell’Unione europea.

A dicembre l’Italia ha già subito due procedure d’infrazione con una multa pari a 62,7 milioni di euro a cui andranno aggiunti 346mila euro al giorno fin quando non saranno sanate le irregolarità del cliclo integrato delle acque, per un totale di 61 milioni a semestre di inadempienza.

IL MINISTRO dell’Ambiente Gian Luca Galletti, che ha avviato un tavolo tecnico in tandem con il collega dell’Agricoltura Maurizio Martina e con le Regioni, sostiene non sono le risorse a mancare, «se pensiamo ai 2,2 milioni già previsti per gli interventi di depurazione e ai quasi 600 milioni destinati al tema acqua dai Fondi di sviluppo e coesione». Ciò che manca per lui sono «la capacità, la velocità e la trasparenza nella spesa in sede locale».

NEL BLUE BOOK i gestori sostengono che l’unica soluzione è quella di alzare le tariffe per coprire i costi degli investimenti necessari, stimati in 5 miliardi l’anno, da suddividere con 80 euro per abitante (mentre ora il programma 2014-2017 ne prevede una media di 32 euro pro capite). Tutti soldi che, secondo le aziende, in base al sistema full cost recovery in uso dovranno essere sborsati dai cittadini, per adeguarsi alle tariffe di Berlino (dove un metro cubo di acqua costa 6,03 dollari) o di Parigi e Londra, dove il costo è comunque più che doppio rispetto a quello di Roma. Soltanto Atene e Mosca, insiste il rapporto, ha tariffe così basse.

DAL FORUM nazionale dei Movimenti dell’Acqua replica Paolo Carsetti: «A sentire le aziende sembra che siamo all’anno zero ma è dalla metà degli anni ’90 che è iniziata la privatizzazione dell’acqua perché, si diceva, solo una gestione privatistica delle municipalizzate avrebbe saputo migliorare la rete e invece non è avvenuto nulla».

Per il Forum per l’acqua pubblica le grandi multiutility quotate in Borsa – Acea, Hera, A2A e Iren, le più grandi – che ora premono per assorbire i gestori più piccoli e rilanciare la politica del full cost recovery – cioè il costo del servizio interamente coperto dalla tariffa – non sono la soluzione. «Anzi, sono una cura peggio della malattia – dice Carsetti – visto che hanno fini di lucro. L’unica via è invertire la rotta, un grande piano di investimenti sul ciclo dell’acqua finanziato dalla fiscalità generale dev’essere una priorità, anche per applicare il risultato del referendum del 2011».