Sceso dall’aliscafo che arriva dal Pireo di Atene, una volta raggiunta dopo due ore di viaggio la terraferma di Hydra, è come se improvvisamente si entrasse in un’altra dimensione, la sensazione corporale è quella del piacevole spaesamento. Il borgo marinaro si estende in alto, a ferro di cavallo, piccole case strette una all’altra, scalinate ripide e infide, e sopra una montagna brulla e rocciosa. Spingo il trolley sulla banchina del porto dove c’è un continuo e leggero camminamento disinvolto e fisiognomiche diverse, parlate soprattutto inglesi, ma anche francesi, volti italiani, un clima cosmopolita – sono molti gli americani che frequentano questa località del golfo di Saronico, tra Poros e Spetses – sono avvolto da un flusso, che qui è continuo, incrocio eleganti signori col panama in testa e camicie di lino dai colori chiari dalle tinte marine celesti.

NEI BAR ALL’APERTO, di fronte all’approdo delle barche, che da qui partono per le rive più appartate, sostano i barcaioli, sonnacchiosi signori maturi con orecchini d’oro ai lobi delle orecchie, volti rugosi e barbe ispide, che hanno l’aria di vecchi lupi di mare e sorseggiano birre chiare, neri caffè, signore anziane abbronzate entrano nei piccoli negozi, dileguano lente come fantasmi lungo le strette vie dai muri intonacati di bianco accecante e intorno c’è una luce vivida dai toni iperrealistici, le ombre tagliano le strade e quando la calura accerchia diventano piccole oasi dove trovare un temporaneo riparo, anche se soffia sempre una brezza leggera.

A Hydra le vie non hanno nome e sulle porte non sono appesi i numeri civici, tutti camminano perché nell’isola non possono viaggiare automobili, né moto o biciclette, tutto è calmo e silenzioso, questo è parte del suo fascino, anche perché ogni attività umana rallenta, diventa più rilassata e indolente, anche la vita intorno spinge al rilassamento, gli unici mezzi a motore sono l’autocarro che raccoglie la nettezza urbana, guidato da pigri spazzini, l’ambulanza e l’auto della polizia, il resto del trasporto è via mare, ma soprattutto via asino, perché la classe operaia, i veri lavoratori di Hydra sono loro, muli, asini e cavalli, sembra che il destino di questo posto stia tutto sopra le loro spalle e sul lavoro umile dei loro infiniti passi, e degli sguardi che sembrano infelici nei grandi occhi acquosi che guardano con mite dolcezza in ogni dove. A trainarli sono uomini rozzi e un po’ sgraziati, i volti molto abbronzati e i vestiti dimessi, baffi affilati e cappelli di paglia in testa, che arrivano da zone remote e brulle di Hydra.

SONO OLTRE TRECENTO PICCOLI ANIMALI dal manto scuro, le selle in cuoio, sopra coperte colorate, oppure dal pelo bianco, le criniere e i ciuffi grigi al centro della testa, che è come se si portassero addosso una maledizione antica, quella di una vita dominata dalla fatica, segnata dalla schiavitù. Li incontri che avanzano a passo lento sulle strade tortuose che salgono nelle parti alte dell’isola, il proprietario che li guida è sempre davanti e tira le briglie con una corda tesa, indirizzandoli e cambiando traiettoria quando incontrano davanti a sé un ostacolo, loro, che sembrano servi felici, rispondono docili ai comandi, non si lamentano mai o scalciano ribellandosi, invece scalano tenaci vicoli rabbuiati dove nessun altro mezzo potrebbe arrivare, spazi nascosti, inaccessibili, o s’inerpicano verso le piccole pensioni con sulle schiene sudate grandi valigie e viaggiatori seduti sopra le già pesanti selle, sulle quale trasportano anche viveri, balle di fieno, rifiuti chiusi in pesanti sacchi neri di cellophane o sacchi di cemento, viaggiano sulla dorsale che costeggia gli affacci vertiginosi sul mare aperto e dove sono ancorati yacht di lusso.

PUÒ ANCHE SUCCEDERE, come è capitato a me in questi giorni, di vedere arrivare dal porto una sposa giapponese in sella a un piccolo asino inghirlandato per l’occasione, con una decorazione sul muso, seguita dalle tre testimoni vestite di verde, raggiungere sulla strada in salita che va verso il ristorante di lusso Sunset, con vista sul mare, il marito inglese già in attesa trepidante sul piccolo altare allestito all’aperto, con al centro una enorme ghirlanda ovale fatta di rose colorate, posta al centro di un gazebo col tetto a pagoda.

UNA VOLTA QUESTE BESTIE ERANO TRATTATE con più durezza, scontrosità, poi sono arrivati a protestare sull’isola gli animalisti, adesso godono di maggiore protezione e rispetto, e sono diventati il simbolo di Hydra, i loro musi dolcemente arrendevoli sono stampati su magliette e piatti colorati, anche perché i turisti che arrivano qui hanno una forte sensibilità per il rispetto dell’ambiente e degli animali, pure se la loro vita precaria e subalterna non è cambiata di molto, e sembrano guardare infastiditi le imbarcazioni di lusso di fronte alla banchina dove sono parcheggiati e da dove scendono agiati e seriosi gitanti in cerca di una taverna sontuosa dove mangiare pescato fresco, che saranno costretti ad accogliere loro malgrado sulla groppa. Anche se l’isola, definita la Portofino del Peloponneso, non è affatto un posto d’élite come Mykonos o Santorini, ma forse un po’ aristocraticamente snob, e si è sempre difesa dal turismo di massa, conserva invece un suo conio autentico e popolare, soprattutto nelle suggestive taverne all’aperto dove si mangia tzatziki, insalate fresche e sardine fritte, o nei piccoli alloggi dove trovare asilo di ritorno dalle spiagge ghiaiose e dal mare cristallino e incontaminato di Bitsi e Aghios Nikolaos.

QUANDO QUI ARRIVÒ NEL 1960 il giovane scrittore canadese Leonard Cohen, due raccolte di versi pubblicate anche se non ancora aveva inciso il suo primo album, pur avendo già scritto Let us compare mythologies e The Spice-Box of Earth, quello che con modestia si definiva «poeta minore», con 1500 dollari di una eredità comprò una casa senza elettricità e acqua potabile, e sempre sull’isola incontrò la sua musa Marianne Ihlen, norvegese moglie dello scrittore Axel Jensen (di quell’idillio resta la struggente So long, Marianne). In una foto in bianco e nero scattata da James Burke si vedono entrambi in sella agli asini in gita sull’isola, un paesaggio lunare fatto di terra e crateri, piccoli alberelli d’ulivo, e dietro il mare. «Era come se tutti fossero giovani, belli e pieni di talento, ricoperti da una specie di polvere d’oro. Tutti avevano qualità speciali e uniche, questo è, naturalmente, il sentimento della giovinezza, ma nella gloriosa atmosfera di Hydra, tutte queste qualità furono amplificate», scriverà di quei momenti magici Cohen.

SULLA CAMMINATA CHE DAL PORTO va verso il piccolo villaggio Kamini, dove si parla ancora albanese, nei luoghi che ho esplorato durante la mia residenza, c’è una panchina da dove si può mirare il mare azzurrissimo di fronte, che al tramonto diventa un paesaggio lirico che incanta, a ricordo del celebre cantautore che lì iniziò a comporre “Bird on the Wire” ispirandosi a un uccello che si era posato sui cavi elettrici. Continuando su quella strada si arriva a un porticciolo, e continuando a salire lungo un acciottolato chiuso dal lato mare da una muraglia, si scoprono gli angoli più segreti e remoti, quelli più silenziosi.

NEGLI STESSI ANNI FURONO ATTRATTI da Hydra anche Brigitte Bardot, il poeta svedese Göran Tunström, ma anche il poeta beat Allen Ginsberg e Henry Miller, il quale nel reportage del suo viaggio in Grecia Il colosso di Marussi, colpito dalla sua bellezza, definì l’isola di «selvaggia perfezione».

«Hydra ammalia come Circe», mi ha confessato una signora italiana che ho incontrato sul traghetto di ritorno dalla spiaggia di Four Seasons, lei e suo marito tornano qui da più di quindici anni, «stesso albergo, identico ristorante, tutte le sere sempre allo stesso tavolo» ammette candidamente di quel loro essere abitudinari fino alla fobia. «Eravamo qui persino nell’estate del 2015, quando la Grecia stava per andare in default», racconta, «i turisti spaventati dall’idea di una imminente bancarotta non erano venuti, l’isola era deserta, solo noi due seduti ai tavolini di un bar davanti al porto, una scena surreale, indimenticabile».