Sulla drammatica crisi in Nicaragua il campo progressista e di sinistra latinoamericano non potrebbe essere più diviso: governi, partiti, esponenti politici, intellettuali si scontrano e si accusano reciprocamente in nome dei valori sandinisti. Gli uni – a cominciare dal Foro de São Paulo, dal Partito dei lavoratori brasiliano e dal governo venezuelano – convinti che si tratti di un tentativo di golpe suave contro il governo Ortega da parte di forze dell’opposizione finanziata dagli Usa attraverso organismi come l’Usaid (United States Agency for International Development) o la Ned (National Endowment for Democracy).

GLI ALTRI – tra cui gli autori di una durissima Declaración urgente por Nicaragua che ha tra i primi firmatari figure come Alberto Acosta, Maristella Svampa, Raúl Zibechi, Hugo Blanco, Pablo Solon ed Edgardo Lander – schierati a favore di quella che considerano una legittima ribellione contro un regime autoritario, repressivo e, nei fatti, anti-popolare.

E a fianco di questi ultimi è sceso anche l’ex presidente e attuale senatore uruguayano José Mujica, il quale, durante un dibattito in Senato, ha sollecitato Ortega a lasciare il potere, evidenziando come l’originario sogno rivoluzionario si sia trasformato in un’«autocrazia»: «Arriva un momento – ha detto – in cui bisogna prendere la decisione di andarsene».

A MUJICA, che in passato non aveva risparmiato critiche neppure a Maduro, definendolo «matto come una capra», ha risposto il presidente dell’Assemblea costituente venezuelana Diosdado Cabello, accusandolo, oltre che di uno straripante ego, di una totale mancanza di comprensione della situazione nicaraguense: «Se cade il Nicaragua cadranno tutti i paesi dell’America latina, anche il tuo Uruguay. Divoreranno il tuo popolo, perché la voracità dell’imperialismo non fa sconti a nessuno».

È QUANTO RITIENE anche il noto intellettuale argentino Atilio Borón, secondo cui «tutta la storia del XX secolo è stata segnata dall’ossessiva volontà di Washington di sottomettere il popolo ribelle del Nicaragua», anche al prezzo «di instaurare la sanguinaria dittatura di Anastasio Somoza», sul quale, ha ricordato Borón, Franklin D. Roosevelt non aveva avuto nulla di meglio da dire che «Sì, è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana». Un argomento subito ribaltato dal militante socialista argentino Abel Bohoslavsky: «Se Somoza era il figlio di puttana di Roosevelt, Ortega sarebbe il nostro figlio di puttana?».

DI SICURO, se pure tra i critici del governo qualcuno riconosce l’interesse di Washington di sfruttare la situazione a proprio vantaggio e denuncia le violenze commesse anche da una parte degli oppositori (tra le oltre 350 persone uccise durante gli scontri non mancano poliziotti e militanti orteguisti), il rifiuto per la coppia presidenziale Ortega-Murillo non potrebbe essere più netto.

UN RIFIUTO che risale alla piñata del 1990 (la spartizione di beni tra i dirigenti sandinisti dopo la sconfitta elettorale di quell’anno) e si rafforza con l’accusa rivolta a Ortega da parte della sua figliastra Zoilamérica Narvàez Murillo di aver abusato sessualmente di lei; con il patto del 2009 con il corrotto ex presidente Arnoldo Alemán e con quello, altrettanto necessario per la conquista della presidenza, con il cardinale Obando y Bravo, fino ad allora suo acerrimo nemico (un patto stretto sulla pelle delle donne, private, poco prima delle elezioni, persino del diritto all’aborto terapeutico); con l’alleanza con la grande impresa che ora gli ha voltato le spalle al pari della gerarchia ecclesiastica e con la subordinazione al capitale straniero, senza contare la concessione cinquantennale rilasciata ai cinesi per il monumentale (e devastante) progetto del Grande Canale Interoceanico.

Un rifiuto che non è mitigato neppure dai programmi sociali realizzati dal governo a favore delle fasce più povere – i quali spiegano l’indice di gradimento non inferiore al 20% di cui ancora gode la coppia presidenziale -, essendo stati affiancati dal moltiplicarsi di maquilas al servizio del grande capitale. E neanche è attenuato dal rischio che al governo Ortega possa subentrarne uno dal carattere ancora più marcatamente neoliberista: «Si tratta per caso – si chiede infatti il sociologo argentino Marcelo Colussi – di difendere il meno peggio? Siamo sicuri che un canale costruito dai cinesi rappresenti una vittoria per il campo popolare?».