«E io sono Muhal Richard Abrams, ma non il pianista»: alla fine della presentazione dei musicisti, il guru dell’avanguardia chicagoana scherza sul fatto di essere stato per buona parte del concerto – una lunga sequenza senza soluzione di continuità di una cinquantina di minuti – seduto davanti allo strumento ma senza toccare la tastiera, o in qualche momento per esempio suonando solo con la destra. Ma al Teatro Manzoni di Milano, in una rara apparizione, appuntamento clou del ciclo Aperitivo in concerto e in generale uno degli appuntamenti più attesi di questa stagione jazzistica, Muhal è stato perfetto in quel che ha suonato e in quel che non ha suonato. In quel sottrarsi ci sarà anche un risparmio in ragione delle tante primavere – saranno 86 il prossimo settembre – ma c’è anche tutta una filosofia del fare musica inteso non come esibizione e virtuosismo fini a se stessi, ma come pratica tutta mirata all’espressione.

E all’espressione del quintetto di Muhal, quel suo astenersi per lunghi tratti era del tutto funzionale, lasciando all’interplay e al distendersi della musica il respiro, lo spazio necessario. Del resto se – schematizzando – l’avanguardia jazzistica newyorchese è storicamente incline al pieno, alla saturazione, quella chicagoana di cui è stato maestro è un’avanguardia con un grande senso del silenzio. Un set di musica magnificamente composta, nel duplice significato: orientata da partiture – oltre che dagli interventi del piano e da scarne indicazione di Muhal – ma anche di grande compostezza, tanto nell’insieme che nelle sue singole parti. Con Jonathan Finlayson alla tromba, Bryan Carrott al vibrafono, Leonard E. Jones al contrabbasso e Reggie Nicholson alla batteria, in una sorta di geometria variabile nell’impiego degli strumenti, che solo a tratti sono tutti insieme, la musica trascorre fra situazioni diverse, in una avvincente mutevolezza che crea nell’ascoltatore una positiva disposizione di attesa.

Apprezzato per tante prestigiose collaborazioni con figure di punta come Steve Coleman e Steve Lehman, Finlayson suona senza fronzoli, andando dritto a quello che occorre, che sia un miagolio, che siano note lunghe, assorte, che concorrono ad una dimensione di suspence, che sia un infinitesimale lirismo fatto filtrare dentro un passaggio concitato, che debba dare ad un episodio quasi classico-contemporaneo un tocco di austerità novecentesca oppure al contrario uno spirito leggiadro, un po’ a cavallo fra Don Cherry e la tromba di Donnerstag aus Licht di Stockhausen. Puntuale Carrott, con quell’elemento di duttilità e di dinamismo, di luminosità che è del vibrafono, con spunti melodici sobri ma di grande ristoro, e qualche abbandono sognante.

Ma tutti sono attentissimi, e quello che Muhal offre nei momenti in cui suona è prezioso, per la direzione della musica e in sé: come un passaggio ondoso e riflessivo prevalentemente sul registro basso, o i cluster imperiosi sempre sulla parte bassa della tastiera con cui conclude un bis. È prezioso soprattutto l’esempio che con questa musica dà di una inesausta dedizione alla musica come continua ricerca, mai adagiata sul banale intrattenimento e la routine.

Cinquant’anni fa Muhal dava vita all’AACM, l’associazione per la promozione dei musicisti creativi di Chicago: giovani che hanno seguito il suo magistero come Roscoe Mitchell, Anthony Braxton, Leo Smith, Henry Threadgill, sono, oggi settantenni, come lui ancora in prima linea e ancora giovani.