Diavolo di un Mugabe. I militari che tre giorni fa hanno affettuosamente messo sotto tutela il 93enne eterno presidente dello Zimbabwe per poi trattare con lui una morbida uscita di scena non lo hanno ancora convinto. Oggi ci proverà la piazza, con il raduno di tutte le forze che pensano sia giunta l’ora del fresh start, dal movimento #ThisFlag guidato dal pastore protestante Evan Mawarire alla potente Associazione dei veterani della guerra di liberazione, giunta ieri a lanciare un ultimatum all’uomo che di quella guerra resta un eroe: «Dimissioni entro sabato».

Mugabe resta un padre della patria per gli stessi vertici militari che hanno preso il potere. Ieri lo hanno portato all’università – prima apparizione pubblica dopo il «non-golpe» – per distribuire attestati ai neo-laureati. Tra loro anche la figlia di Constantino Chiwenga, il generale che guida la fronda. Per alcuni analisti gioca un ruolo anche la cultura shona, maggioritaria nel paese, che impone il rispetto degli anziani in ogni circostanza.

Un po’ anziano lo è anche Emmerson Mnangagwa, il vice presidente licenziato da Mugabe, ultimo ostacolo alla prorompente ascesa politica della first lady Grace Mugabe, la cui sorte resta un mistero. Da una parte «Gucci Grace» e i suoi G-40, ala emergente nei ranghi del partito al potere; dall’altra un veterano anche lui di mille battaglie, soprannominato «il coccodrillo» e quindi a capo della corrente Lacoste (sic), ma soprattutto molto vicino all’esercito.

Nel mondo i più spiazzati sembrano gli Usa, che del non allineato Mugabe si sarebbero sbarazzati volentieri dai tempi di Obama e ora gridano alla «China Connection», in riferimento al viaggio compiuto da Chiwenga a Pechino una settimana prima. Neanche i golpe sono più quelli di una volta.