Lo Zimbabwe è famoso per i diamanti, gli elefanti, forse la mbira che dialoga con gli antenati e di certo per aver festeggiato con un concerto di Bob Marley & The Wailers, nel 1980, la vittoria della guerra di liberazione e la fine della Rhodesia razzista.

Un paese di cui si è scritto più per le mise eccentriche del suo leader maximo che per le perduranti condizioni di vita dei suoi cittadini, costretti alle rotte australi della speranza, identiche a quelle del nostro emisfero salvo che ad accoglierli o a respingerli, oltre il Limpopo, ci sono le bollenti township sudafricane. Gli esclusi sono ancora tali e il paese è rimasto preda di affaristi e post-colonialisti, mercenari e bracconieri, trafficanti di armi e pietre preziose. Allo stesso tempo Mugabe, con le sue posture politiche da Gheddafi del sud e i suoi voti all’Onu o all’Unione africana, «persona non gradita» in Gran Bretagna dopo che una controversa e tardiva redistribuzione delle terre aveva malamente messo alla porta i grandi proprietari inglesi, era una spina nel fianco delle diplomazie occidentali e africane. In molti avranno brindato oggi alla sua disfatta.

Già eroe della liberazione cantato dalle canzoni chimurenga, premier dall’80 e all’87 e poi sempre presidente, Robert Mugabe paga infine anche questo suo irriducibile non allineamento.

E dire che il più anziano capo di stato del mondo ne aveva passate forse di peggiori. Nel 2008 aveva resistito persino a un voto che consegnava la maggioranza assoluta alle opposizioni, altrimenti divise e ostaggio di un leader controverso come Morgan Tsvangirai. All’epoca fu il presidente sudafricano Thabo Mbeki a metterci una buona parola e 5 anni dopo Mugabe rivincerà largamente le presidenziali. Per il 2018 aveva già annunciato la sua ricandidatura.

Solo che finché il pericolo veniva dall’esterno, tipo le potenze occidentali a cui è sempre stato sullo stomaco, riusciva a ricompattare i ranghi. Ora a esplodere è il conflitto interno allo Zanu-Pf, il partito nato alla confuenza tra filo-sovietici e filo-cinesi all’indomani della liberazione, e di cui Mugabe è ovviamente capo supremo. Con faide ormai incontrollabili, polarizzate intorno alla figura politicamente sempre più vistosa di Grace Mugabe («Gucci Grace», come la chiama il popolo che ieri ad Harare festeggiava la sua sfortuna) e a quella del vice silurato, Emmerson Mnangagwa, indicato come probabile regista del golpe. Con la benevolenza discreta del “padrino” economico del paese, la Cina. E quella politica di un Sudafrica distratto forse dai veleni che segnano il crepuscolo del suo, di presidente. E del relativo partito, l’Anc. Zuma finora si era speso per un onorevole mantenimento dello status quo. Un po’ come fa Pechino, fatte le dovute proporzioni, con il monello nordcoreano.