Si sta costruendo la statua di Cristo più alta del mondo, più ancora di quella di Rio de Janeiro (e non è una trovata di surrealismo polacco, si trova a Swiebodzin nella Polonia occidentale, cinque anni per costruirla, realizzata con le donazioni della popolazione). Jacek (Mateusz Kosciukiewicz), un operaio che fa lo scalpellino nel cantiere si salva per miracolo da un incidente sul lavoro, ma resta sfigurato per sempre.

Prima era troppo felice, con quei capelli lunghi sembrava un Cristo anche lui, amante della natura, a correre spensierato per i campi con il suo cane, metallaro di provincia. Già fare un film sul volto di un Cristo sfigurato potrebbe essere una provocazione in un paese cattolico come la Polonia e offre una prima chiave di lettura al film: Twarz (il volto) è il titolo originale del film di Malgorzata Szumowska, Gran premio della giuria a Berlino, Mug è il titolo internazionale con una connotazione un po’ più mostruosa. Rassicurante il titolo italiano.

LA COSTRUZIONE del Cristo rimanda a quella delle croci di fronte ai cantieri di Danzica e indica immediatamente il passare del tempo. Non siamo più nei paraggi delle allusioni care al cinema polacco, oggi non ce n’è più bisogno e la regista specialista della commedia nera, in pochi minuti già nelle prime scene riassume caratteristiche contemporanee del suo paese e di quelli vicini: consumismo, sovranismo, superstizione religiosa, sottomissione al cattolicesimo, attenzione all’aspetto esteriore, disoccupazione. Regista, sceneggiatrice e produttrice (tra l’altro di Antichrist di Lars von Trier), oggi Malgorzata Szumowska è uno dei nomi di punta del cinema polacco ed europeo, premiata a Locarno per 33 scene della vita (2008), arrivata al pubblico internazionale con Elles (2011) con Juliette Binoche, miglior film sui temi Lgbt a Berlino per In the name of (2013) Orso d’argento per Body (2015).

Sparge con abilità il veleno del racconto, non procede con l’accetta come ha fatto Wojciech Smarzowski in Kler (trionfo al botteghino, quasi un rito liberatorio per il pubblico polacco) con i suoi prelati peccatori, ma certo non è lieve nel mostrare il controllo totale della chiesa sulla vita della gente soprattutto di paese e la smania consumistica alla fine del comunismo. Senza nessun tono didattico, con la sola arma creativa del primo piano e la strategia del campo lungo, dell’uso della musica e dell’intreccio dei personaggi con la loro confusione linguistica (peccato vederlo tradotto) riesce ad attivare un effetto di riflessione sull’intera società.

CON UN RIVOLUZIONARIO trapianto Jacek avrà un volto nuovo, anche se dai tratti piuttosto deformi. Le parole gli escono a stento, non è più la rock star che cantava a squarciagola a bordo della sua 126 .
Ridotto a una bestia senza la bella, allontanato dalla fidanzata e perfino dalla madre, il protagonista accompagna il film nella provincia polacca contemporanea dove il nazionalismo assume toni allarmanti e non più eroici come ai tempi di Wajda e il cattolicesimo sembra una farsa, più adatta all’adorazione degli idoli. Ma una rock star mantiene per sempre il motto «rimani libero e vai lontano».